Era il 22 settembre 1990, il giorno dopo l’assassinio. L’allora arcivescovo di Agrigento, mons. Carmelo Ferraro, celebrò le esequie di Rosario Livatino nella basilica affollatissima dedicata a San Diego, a Canicattì.
Come seppe dell’assassinio del giudice Livatino?
L’uccisione di Livatino fu subito resa nota da un agente di commercio, Pietro Ivano Nava, che si trovava sulla strada e avvertì la polizia. Si seppe così immediatamente del feroce assassinio che seguiva quello del giudice Saetta, avvenuto due anni prima, per aver giudicato e condannato alcuni mafiosi per il delitto del giudice Chinnici. Era in corso una guerra di mafia con circa 300 morti in diversi anni, nell’Agrigentino.
Il Tribunale organizzò una commemorazione alcuni giorni dopo l’assassinio di Livatino. Dissi, in quell’occasione, che il magistrato era stato come una candela accesa. Si è tentato di spegnerla, ma invece si è accesa una fiaccola che sarà posta su un candelabro a far luce nel tempo. Ho tenuto a dire questo anche nella celebrazione dei funerali: che l’ultima parola sarebbe stata quella della Pasqua, non il venerdì santo. E che questa sarebbe stata la partecipazione ai misteri di Cristo, riconoscendo Rosario Livatino un discepolo del Signore Gesù.
Lei non conobbe Livatino personalmente in vita, ma le arrivò una sua richiesta…
L’arciprete Restivo di Canicattì mi aveva chiesto un crocifisso da offrire a un magistrato giovane che gliene aveva fatto richiesta perché, nell’ufficio che occupava in Tribunale, voleva mettere quell’immagine. Io avevo una stampa del Crocifisso del maestro di Giotto e gliene feci omaggio.
Qual è stata la prima cosa che ha fatto quando ha saputo dell’omicidio di Livatino?
Ho subito pregato. Padre Filippo Barbera ha racconto che si stava recando da me perché lo avev0 chiamato. Ha trovato la strada occupata, scendendo dall’auto, ha visto il corpo del magistrato e gli ha dato l’assoluzione in pericolo mortis. Subito dopo, è arrivato da me e la reazione è stata il dolore e la preghiera.
Lei accolse Giovanni Paolo II ad Agrigento, quando pronunciò il suo celebre anatema contro la mafia, e ne organizzò l’incontro con i genitori del magistrato. Che cosa ricorda di quei momenti?
Il Papa veniva informato di tutto ciò che accadeva. La sua visita pastorale ad Agrigento era su questo tema. Ricordo che, al termine del riposo pomeridiano, il Papa alle 16 sarebbe uscito dalla stanza, quel giorno, per incontrare gli industriali. Accanto avevo fatto mettere in due stanze diverse sia la famiglia del giudice Saetta sia la famiglia Livatino, il padre e la madre, con la professoressa Ida Abate. Tutto ciò per consentire al Santo Padre di dare una parola di consolazione a due famiglie che erano state distrutte dalla violenza mafiosa.
Il Papa tenne le mani della mamma di Livatino con la tenerezza che gli era propria. Il papà gli disse che era il loro unico figlio e che quindi sono rimasti a incontrare la morte nella solitudine. Per la famiglia fu un incontro di grande consolazione.
La madre non ebbe mai un pensiero di vendetta, di rancore. Possiamo leggere nella dolcezza della mamma di Livatino l’educazione che aveva saputo trasmettere al figlio: la sensibilità, l’intelligenza, la voglia di realizzare il progetto di Dio nella propria vita.
Perché affascina, secondo lei, la vita di Livatino?
Si è scoperto poi che andava a fare la visita al Ss. Sacramento ogni mattina prima di entrare in Tribunale. Ce lo disse il parroco della chiesa di San Giuseppe. Man mano si sono scoperti altri particolari per cui è emersa la figura di un uomo che raggiungeva traguadi di fascino da parte del mondo dei giovani, delle scuole, ravvisando in questo tipo di vita vissuta con serietà, con impegno, quasi un ideale di vita. Tanti ragazzi sono rimasti incantati dalle cose grandiose che si potevano fare. Hanno visto nella piccolezza e nella semplicità di una vita vissuta intensamente che c’era la pienezza della realizzazione di un sogno e di una vocazione.
Assieme a don Puglisi è un richiamo contro la teoria satanica della cultura mafiosa, fondata sulla vendetta.
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