SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Si è svolto sabato, alle ore 16:00, presso il Santuario dell’Adorazione, il convegno dal titolo “Tra i malati di Covid-19 – testimonianze degli operatori sanitari”, organizzato dalla Congregazione dei Padri Sacramentini in occasione delle Giornate Eucaristiche 2021. A moderare l’incontro con i sanitari dell’Ospedale Madonna del Soccorso, due medici di base sanbenedettesi Giuseppe Romani e Stefano Pardi, entrambi iscritti all’AMCI, Associazione Medici Cattolici Italiani.
Prima a prendere la parola la Dott.ssa Francesca Chiara Giorgi, Primario del reparto di Oncologia Medica dell’Area Vasta 5, la quale ha raccontato: “Il nostro reparto ha vissuto due fasi molto diverse tra loro. Nella 1° fase i pazienti non volevano essere curati, avevano paura di questo virus sconosciuto e noi sanitari avevamo difficoltà a far comprendere loro l’importanza di non abbandonare le cure. Nella 2° fase, invece, il nostro ospedale è divenuto struttura Covid, quindi i nostri pazienti sono stati costretti a recarsi presso l’ospedale di Ascoli Piceno, con tutte le difficoltà che questo spostamento comporta. Per un paziente oncologico è dura affrontare un viaggio di 30 km, per giunta senza un familiare. A tal proposito voglio precisare che, anche se il protocollo Covid non permetteva ai malati di essere accompagnati in ospedale da familiari o amici, abbiamo preteso, lottato ed ottenuto la presenza di un familiare almeno al momento della diagnosi: non è, infatti, accettabile, che un paziente sia solo nell’istante in cui gli viene comunicata una malattia così grave.” “Il covid ha avuto effetti anche sulla prevenzione – ha proseguito la Giorgi – c’è stato, infatti un blocco dei controlli. Ora che qualcosa ha ricominciato lentamente a muoversi, abbiamo un difficile recupero da affrontare: posso dire che, dalle prime verifiche e statistiche, sono stati molto trascurati i tumori ai polmoni e alla mammella.” L’oncologa ha poi concluso il suo intervento ricordando il fratello psichiatra, venuto a mancare proprio a causa del Covid ed ha raccontato come si sia sentita impotente di fronte al suo congiunto, quanto sia stata dura dirgli addio senza poterlo salutare e quanto sia stato difficile interrompere un rapporto così all’improvviso, senza avere neanche il tempo di dirsi qualcosa di importante.
Subito dopo è intervenuta la Dott.ssa Giuseppina Petrelli, Primario del Pronto Soccorso e della Medicina d’Urgenza, la quale ha dichiarato: “Sono molto felice di partecipare ad un convegno che non è scientifico, ma incentrato sulle relazioni. Tre sono le parole con cui vorrei riassumere il vissuto di questo primo anno e mezzo di Covid. La prima è condivisione. È stata per noi sanitari un’esperienza forte: ci siamo ritrovati a combattere da soli questo virus sconosciuto e ci è venuto quindi naturale condividere la paura che ne scaturiva. Abbiamo fatto uno sforzo enorme, una sorta di stress test a cui mai eravamo stati sottoposti prima. Oltre ai cambiamenti da affrontare dal punto di vista organizzativo, anche dal punto di vista strettamente medico, poiché la scienza non dava certezze, spesso abbiamo sperimentato nuove cure mai provate prima ed ogni volta alta era la tensione. Ogni cosa è avvenuta, però, con tanta umiltà ed un alto coinvolgimento personale di ciascuno di noi. È stato terribile, ad esempio, comunicare per telefono ai familiari di un paziente la morte del loro congiunto. Ed è stato altrettanto terribile sostenere il tempo della morte che, per i pazienti Covid, si è dilatato. Di contro spesso abbiamo gioito entusiasti per i miglioramenti di altri pazienti. La seconda parola che mi viene in mente è protezione, ovviamente riferita ai pazienti, agli infermieri, ai medici, ai reparti. Grande è stato lo sforzo per limitare al minimo il rischio del contagio..Nel nostro reparto abbiamo dovuto modificare tutto l’aspetto organizzativo del Pronto Soccorso ed acquisire nuovi protocolli. Tenendo conto del fatto che il nostro presidio è il primo nelle Marche per accesso (ovviamente dopo Torrette), abbiamo dovuto predisporre aree di accoglienza per i diversi tipi di paziente. Ben si comprende quindi, il motivo per cui, durante tutto il periodo della pandemia, il tempo di gestione di ogni atto, a cui prima eravamo abituati, si è dilatato. La terza parola che riassume questo anno di lavoro è rete: queste cose non si possono fare da soli, abbiamo riscoperto il valore della collaborazione e del sostegno reciproco tra territorio e reparti; inoltre, mai, come in questo periodo, c’è stata collaborazione con l’USCA (Unità Speciale per la Continuità Assistenziale), con la Rianimazione e anche con altri reparti per avere un numero di posti letto giornalieri per pazienti stabilizzati, in modo da fare posto a quelli acuti.”
A seguire la testimonianza del Dott. Davide Pellegrini, attualmente facente le veci del Primario di Chirurgia: “Ricordo ancora la chiamata del Direttore Sanitario il quale mi disse che nel giro di 2 giorni avremmo dovuto vuotare il reparto. Lì per lì mi parve una richiesta folle e provai tanta rabbia: avevo il terrore di affidare pazienti di una fragilità estrema a persone che non conoscevo. Inoltre arrivavano notizie frammentarie e contraddittorie e non avevamo armi per questa guerra: guanti, mascherine, tutto era limitato ed insufficiente. Vista la situazione, qualcuno di noi ha scelto di isolarsi, di andare a vivere fuori casa; io non avevo questa scelta tra le opzioni, visto che sia io che mia moglie siamo entrambi medici. La cosa che più mi ha ricordo di tutto questo periodo è l’impossibilità di non potersi guardare negli occhi: è stato tremendo. Le persone erano sole e morivano sole, senza nessuno accanto, se non un medico o un infermiere che riuscivano a stringere una mano: questa è la cosa che non riusciremo mai a toglierci dal cuore. Se qualche volta uno di noi è riuscito a stringere una mano, ha fatto molto.” Pellegrini ha poi terminato con la sua esperienza diretta e personale e con alcuni ringraziamenti: “Io ho perso mia madre a causa del Covid, quindi so di cosa sto parlando sia come medico che come familiare di una persona deceduta a causa di questo maledetto virus. Invito quindi tutti a vaccinarsi, se non altro per la memoria di chi è morto prima. Infine voglio dire un immenso grazie alle persone fuori dall’ospedale che ci hanno dato un grande sostegno.”
È stato poi il turno del Primario di Geriatria, il Dott. Mario Sfrappini il quale ha ricordato il giorno in cui gli hanno comunicato la triste notizia: “Era Domenica. Il Direttore Generale mi chiese di vederci nel pomeriggio. Già questo mi fece capire l’urgenza e la gravità della situazione. Fui accolto con facce meste e preoccupate. Mi dissero subito che la nostra struttura sarebbe divenuta un ospedale covid. Questo significava programmare un’attività e dei protocolli completamente diversi. Pensai subito che sarebbero arrivati per noi mesi di lavoro completamente diversi da quelli precedenti, perciò chiamai la mia coordinatrice per programmare ogni cosa nei minimi dettagli: persone e struttura. A tale riguardo, in questa sede voglio ricordare due categorie di persone che ci tengo a ringraziare: prima di tutto il gruppo delle mie assistenti, un gruppo di mamme che per giorni hanno lasciato le loro famiglie per creare percorsi assistenziali nuovi e poi le varie maestranze che in 18 ora hanno eseguito numerosi lavori per creare una nuova linea di ossigeno e per preparare per i sanitari un percorso separato da quello dei pazienti per vestirsi, lavarsi e svestirsi prima e dopo ogni turno di lavoro. In quei giorni ogni ora era preziosa ed ogni sacrificio fatto ha contribuito a salvare la vita a qualcuno. Infine vorrei anche ringraziare il meraviglioso mondo del volontariato per l’estrema disponibilità che ci ha mostrato durante tutta la pandemia. Seppur quel periodo sia stato difficilissimo, perchè ci ha imposto ritmi di lavoro a noi sconosciuti, tuttavia ci ha fatto anche conoscere le nostre risorse e la nostra resilienza. Abbiamo, infatti, vissuto situazione estreme, come quando mi sono trovato a gestire personale nuovo a cui ho dovuto dare coraggio, forza e prospettiva o quando ho dovuto comunicare ad una collega la morte della madre. Momenti intensi che rimarranno per sempre nel mio cuore.”
A seguire ha preso la parola l’infermiera Isabella Pedretti che ha raccontato, con molta sincerità, la paura dei primi tempi: “Noi infermiere all’inizio ci siamo anche arrabbiate perché non ci sentivamo all’altezza. Gestire sia la parte burocratica che i pazienti per dimetterli in due giorni, prima che la struttura divenisse ospedale Covid, non è stato affatto semplice. Ma anche il prosieguo è stata un’esperienza nuova, in cui abbiamo dovuto applicare cose non studiate sui libri. Noi infermieri, madri e padri con figli a casa, ci siamo ritrovati e vivere una situazione che non avevamo scelto. La semplice divisa ci creava problemi, ma soprattutto vedere la solitudine di questi anziani ci struggeva il cuore: infatti, considerata la situazione dei pazienti, essi ci consideravano quasi dei familiari, festeggiavano con noi il compleanno, facevano con noi le videochiamate ai propri cari. Insomma per noi erano un po’ come i nostri nonni, quindi piangevamo insieme a loro e non potevamo neanche asciugarci le lacrime per via delle maschere che indossavamo. Abbiamo vissuto anche situazioni paradossali, come quando, ad esempio, i familiari di un paziente deceduto ci ha chiesto di fare una videochiamata per dare un ultimo saluto alla salma. Per non parlare di tutto il resto, della nostra vita privata. Io, ad esempio, che sono originaria di Modena, ho perso mio padre proprio a causa del covid. Per me ogni morte era un ricordo di mio padre.
Poter dare ad altri pazienti quello che non ho potuto dare a mio padre mi ha aiutato a sentirmi un po’ meglio. Spero di essere stata quella famosa ultima mano di cui parlava il dottor Pellegrini.”
È toccato poi al Dott. Paolo Regis, giovane medico dell’Usca (Unità Speciale di Continuità Assistenziale) che ha raccontato: “Vorrei concludere questa chiacchierata, mettendo in evidenza anche gli aspetti positivi del Covid, se così possiamo dire. Per noi dell’Usca, che siamo quasi tutti giovani medici trentenni, questa esperienza è stata innovativa, un continuo work in progress che ci ha unito moltissimo. Certamente non è stato facile. Da Montalto a Monsampolo, avevamo un vasto territorio da coprire con l’obiettivo di visitare circa 20 pazienti al giorno. Poi abbiamo avuto a che fare con pazienti sospetti e pazienti che poi diventavano positivi, alcuni curabili a casa, altri per i quali è stata necessaria l’ospedalizzazione. In ogni caso, seppur bardati e protetti da capo a piedi, è stato bello fornire un supporto psicologico a tutti i pazienti, cercare di arginare le loro paure. In questo senso, fare il nostro lavoro in piena pandemia non ha significato fare solo il medico, ma è stata una grande esperienza di formazione, professionale e personale. Il ricordo che conserverò a lungo nel mio cuore e a cui ripenserò sempre con grande emozione è una videochiamata che ho fatto fare ad un paziente: è stata l’ultima volta che i suoi familiari lo hanno visto prima di morire.”
Ultima ad intervenire la Dott.ssa Ciapanna, medico del distretto che si occupa delle vaccinazioni la quale ha concluso il convegno con parole di speranza: “Quella della pandemia è stata un’esperienza devastante che mi ha colpito personalmente. Ora che abbiamo i vaccini, pur non potendo abbassare la guardia, tuttavia possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo. In questo senso, il vaccino, oltre che dal punto di vista medico della ricerca scientifica, è un segno di speranza anche dal punto di vista umano.In definitiva possiamo dire che la pandemia ci ha fatto sentire più comunità. E la vaccinazione stessa è segno di comunità: io mi vaccino per il mio bene e per il bene dell’altro.”
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