di Alessandro Di Medio
Negli ultimi giorni si è molto discusso sui media di una giovane atleta che, semplicemente, non ce l’ha fatta a reggere la tensione dell’imminente sfida olimpionica, e si è ritirata prima di gareggiare. Lo stesso era avvenuto qualche mese prima a una sua connazionale; idem per ragazzo di casa nostra, sebbene con un ripensamento all’ultimo che lo ha spinto alla fin fine a tuffarsi (sia letteralmente che figuratamente). I nomi volutamente non li scriviamo, perché questi cuccioli non sono proprio da mettere alla berlina – se li volete, ve li cercate altrove, su altre testate.
Cosa è successo?
Cosa ha portato questi ragazzi, dopo mesi e anni di duri allenamenti e di vittorie a ripetizione nei contesti di casa, a crollare alle Olimpiadi?
“Non ero me stessa, troppa tensione, la mia mente non era ok,” ammette una; “Sono ancora molto giovane e con poca esperienza per avvenimenti così importanti”, è il lucido commento di un altro.
“Sono ancora molto giovane”: la richiesta di aiuto di un ragazzo che implora che si rispetti la sua fragilità, il suo bisogno di strutturarsi e di consolidarsi, prima di affrontare tensioni di simile portata. Il grido di una generazione che chiede aiuto ad adulti incapaci di ascoltarli, gli adulti della generazione dei loro genitori, la generazione dei divorziati risposati plurimi (“tanto i ragazzi capiranno” – e poi lo sappiamo noi preti che accompagniamo i giovani come questi hanno capito, morendo dentro); la generazione dei gaudenti perennemente adolescenti dimentichi dei propri doveri e della cura necessaria; i genitori che strepitano e inveiscono alle partite di calcetto dei figli in oratorio, terrorizzandoli sin dalla più tenera età con una pretesa di vittoria che dovrebbe riscattare loro, gli “adulti”, dai loro fallimenti e frustrazioni. Figli dei loro figli, quantomeno per le pretese infantili.
Tra i tanti ragazzi che seguo ci sono anche alcuni atleti professionisti, e ho imparato che spesso è l’ambizione degli allenatori e dei club, più che la loro, a spingere questi ragazzi al limite e oltre, riducendo l’agonismo a una macchina di prestigio e notorietà per la società sportiva.
Naturalmente non è sempre così: ci sono anche esempi virtuosi nello sport come nelle famiglie di sportivi, che mettono il bene dei loro figli davanti a qualunque competitività o rivalsa – e voglio sperare che siano la maggioranza.
Tuttavia è solo nel quadro di un fardello posto su spalle troppo fragili, l’ennesimo, che si può interpretare quanto avvenuto alle Olimpiadi di Tokyo a questi giovani, esposti senza scelta a un’amplificazione mondiale delle loro prestazioni, e della vittoria o fallimento conseguenti.
In fondo, il loro NO a tutto questo è un segno di speranza: albeggia una generazione nuova, che non ci sta ad avallare semplicemente un sistema di esposizione e consumi, una generazione attenta a quanto succede dentro (“Troppa tensione, la mia mente non era ok”) e desiderosa di rispetto e ascolto. Una generazione senz’altro migliore di quella che l’ha preceduta – la nostra.
Siamo con voi, ragazzi: una medaglia in fondo è solo un pezzo di metallo, voi valete molto di più.
Grazie per avercelo ricordato!
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