Ancora nei libri “Sapienziali” di cui fa parte il Cantico dei Cantici visitato la volta scorsa, è presente un testo che ha fatto parlare di sé molta letteratura ad esso successiva: il libro di Giobbe. La storia di un uomo giusto, ricchissimo e felice che vive onorando il Signore e che Satana chiede a Dio di mettere alla prova per dimostrare che la sua fede è solo in virtù dei suoi beni. Il dramma di quest’uomo è noto: egli perde tutto, ogni sua ricchezza, i suoi sette figli e tre figlie, infine è colpito da una malattia che lo rende pelle ed ossa. Eppure in tutto questo egli urla il suo dolore o si chiude nel silenzio, ma non bestemmia Dio e soprattutto non ne nega mai l’esistenza. Ecco la differenza fra la fede ebraico-cristiana e quella greca che non contempla l’interesse della divinità per l’uomo, pensiamo al verso di Eschilo: “Infinito è il respiro di dolore che dalla terra risale verso il cielo, ci sarà mai un dio che lo raccoglie?” Quattro amici cercano di consolare Giobbe, ma sono sapienti e teologi molesti che parlano per formule astratte (“sentenze di cenere”, “baluardi di argilla”) e che non fanno altro che attribuire a Giobbe stesso la responsabilità dei suoi mali o comunque ad un giudizio insindacabile dell’Altissimo.
Giobbe, in coscienza, si ribella e chiama in causa, come in un processo, Dio stesso per chiedergli conto della sua condizione. E Dio risponde: aiuta la sua creatura a rileggere tutto il progetto della creazione con gli occhi di Lui che l’ha voluta e così ogni mistero in essa contenuto, compresa la sofferenza umana. Al termine di questo appassionante viaggio della fede, Giobbe potrà dire: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere” (Gb 42, 5-6). La sua fede coraggiosa, il suo desiderio di avere risposta lo hanno salvato. Egli non è ancora guarito ma ha una visione nuova e ad essa seguirà un “lieto fine” grandioso con il ripristino di tutte le sue ricchezze e di tanti altri figli (42, 10-17). In tutto questo percorso, fin dall’inizio il testo fa riferimento, senza neppure nominarla, alla moglie di Giobbe. Vedendo il marito, seduto nella cenere, che si gratta con un coccio per la piaga maligna che lo ha colpito, gli dice con astio: “Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!” (Gb 2,9). Abbiamo già visto un comportamento simile nella moglie di Tobi, ma qui la violenza è ancora più forte. Questa donna sta abbandonando il marito al suo dolore, invece di essergli vicino e consolarlo. Spesso il male interviene in questo modo nelle nostre coppie e nelle nostre famiglie. Davvero Satana è “l’avversario” e il diavolo “colui che divide”. Pensiamo a tante separazioni a fronte di un male incurabile di cui l’altro non ha il coraggio di condividere il peso; oppure a quei genitori che non riescono ad accettare la malattia di un figlio e lasciano solo il partner ad occuparsene. “Nella salute e nella malattia” recita la formula matrimoniale, ma chi siamo noi per giudicare la reazione al dolore che ogni uomo e donna può provare? Giobbe cerca di richiamare a sé la donna: “Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (Gb 2,10)”. C’è nelle parole di quest’uomo un estremo sforzo di amore perché non le dice che è stolta, ma è come se lo fosse: può, dunque, recuperare un senno perduto.
Eppure di questa donna nel racconto non si parla più se non per dire che Giobbe è talmente solo e disgraziato che il suo fiato puzzolente ripugna alla moglie stessa (Gb 19,17). Ci siamo mai chiesti cosa faremmo noi in una situazione del genere? La consorte di Giobbe ha perso tutti i beni e tutti i figli che ha perso lui, vive la medesima tragedia, ma forse non ha gli strumenti per affrontare la prova come vede fare dal marito. È difficile incolparla e infatti Dio non lo fa, mentre il testo sacro avrebbe potuto imputarle la sua mancanza di pietà. Al termine del racconto, infatti, si dice che l’ira di Dio si è accesa contro i suoi amici perché non hanno detto “cose rette” (Gb 42,7), ma non una parola è riservata alla moglie che, invece, fino a prova contraria può essere considerata la destinataria, insieme, al marito, di tutto il ripristino di benevolenza che il racconto prevede nel finale, non ultimo, il dono di molti altri figli. Possiamo allora permetterci di immaginare che la moglie di Giobbe non sia “sparita” dalla sua vita, non lo abbia davvero abbandonato, ma sia riuscita in qualche modo a condividerne la tragedia e, magari senza capire, magari nel silenzio o senza avere le parole per fare i suoi ragionamenti, si sia affidata alla loro promessa e per questo venga ricompensata. Viene da benedire il Signore per tutti quei mariti e quelle mogli che, per Grazia di Dio, hanno fondato la loro casa sulla roccia e reggono anche alle piogge torrenziali e allo straripamento dei fiumi (Mt 7, 24-27): essi sono per tutti testimoni credibili che l’amore di Dio ha già vinto la morte una volta per tutte.
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