Maddalena Maltese
Due premi Oscar: uno come migliore attore per la pellicola “I gigli del campo” e l’altro alla carriera. Due Golden Globe. Due Orsi d’argento. Interprete di 47 film e regista di altri nove. Autore di tre libri, ha recitato anche in innumerevoli performance teatrali. L’eredità di Sidney Poitier, primo attore di colore a ricevere un Oscar, va però oltre questi numeri. C’è una battuta in uno dei suoi più celebri film, “Indovina chi viene a cena?” con Spencer Tracy e Katherine Hepburn che disegna il suo percorso umano, anche fuori dal set e dai palcoscenici.
“Tu sei mio padre e io sono tuo figlio. Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto e te ne vorrò sempre. Ma tu ti consideri ancora un uomo di colore, mentre io mi considero un uomo” recita Poiter nei panni del dottor John Prentice, mentre introduce la fidanzata bianca ai genitori neri, proprio nell’anno in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ammetteva come legali i matrimoni tra razze diverse. Poitier si è sempre considerato un uomo, prima ancora che un nero, ma è stato sempre consapevole di dover essere un simbolo per la sua razza, dal primo giorno in cui si è piazzato davanti alle telecamere, fino alla sua interpretazione finale, il 6 gennaio scorso, quando si è spento all’età di 94 anni.
Cresciuto con altri 6 fratelli nella povertà di Cat Island alle Bahamas, senza acqua corrente e senza elettricità, Poitier non si era mai pensato come uomo di colore fino a quando a 15 anni e senza istruzione, andò a vivere con il fratello maggiore a Miami, in Florida, dove incontrò il Ku Klux Klan.
“Non ho mai dovuto essere consapevole di scendere dal marciapiede per far passare qualcuno e non avevo idea di cosa mi stesse aspettando in Florida”, ha raccontato in un’intervista alla conduttrice afroamericana Oprah Winfrey. L’attore si è sentito ripetere che a Miami, per la segregazione razziale i valori erano diversi: “ma io avevo 15 anni e mi piaceva il me che ero stato per 15 anni: un me libero. Non sono riuscito ad adattarmi nell’essere un me limitato”. Poitier non si è mai lasciato schiacciare dal limite, neppure quando approdato a New York venne rifiutato dall’American Negro Theatre per il suo accento caraibico. Ascoltò per mesi i giornalisti americani per modificare il suo accento, lavando piatti per mantenersi le lezioni di recitazione, fino al suo primo ruolo in una compagnia teatrale e da lì il cinema.
Sidney, da quel momento, è diventato il ponte che ha consentito agli afroamericani di passare dai ruoli stereotipati di cameriere o autista o macchietta comica a interpretazioni ricche, profonde, umane che sapevano attirare milioni di spettatori bianchi nelle sale cinematografiche e convincere Hollywood ad assegnargli un Oscar.
È il 1963, quando Sidney Poitier diventa il primo attore di colore a ricevere la statuetta dorata, conquistando un posto singolare nella storia del cinema e in quello della sua razza perché diventa l’unico attore nero a cui gli afroamericani assegnano il compito del riscatto. “Vado davanti a una telecamera con la responsabilità di essere almeno rispettoso di determinati valori e i miei valori non sono disconnessi dai valori della comunità nera”, ha detto Poitier al Museum of Living History, commentando il film “La lunga notte dell’ispettore Tibbs”.
L’attore è diventato un attivista dei diritti civili, in maniera discreta, accogliendo molti leader in casa e viaggiando con il collega Harry Belafonte, nel sud degli Usa per la Freedom Summer.
Si è schierato a fianco dei manifestanti per la marcia su Washington organizzata da Martin Luther King, nel 1963. Cinque anni dopo avrebbe anche partecipato al funerale di King. Eppure è stato accusato di non essere abbastanza progressista, di non aver fatto di più per trovare lavoro ad altri artisti neri, di aver sposato una donna bianca, l’attrice Joanna Shimkus con cui ha celebrato 46 anni di matrimonio. “Mi occupo sempre di domande sulla razza, ma non lascerò che la stampa mi metta dentro uno schema, nutrendomi solo di questioni razziali”, ha ribadito Poitier nell’intervista alla Winfrey. Pur essendo la sua preoccupazione per la razza “sostanziale”, l’attore ha precisato di non occuparsi “solo di razza. Avevo altre opinioni su cosa sia un essere umano, quindi non sono mai stato in grado di vedere il razzismo come la grande domanda. Il razzismo è orrendo, ma ci sono altri aspetti della vita. C’è chi lascia che la propria vita sia definita solo dalla razza, io correggo chi viene da me solo per quella ragione: c’è molto di più in un uomo”.
A chi gli chiedeva se fosse religioso, provenendo da una famiglia cattolica, Poitier rispondeva di non essere “una persona estremamente religiosa, ma credo che ci sia un’unità con il tutto. E poiché c’è questa unità, noi siamo frutto non solo dei nostri genitori ma della storia di intere generazioni che vivono dentro di noi, anche se non le conosciamo”. Questa passione per la vita, lo aveva portato a rispettarne qualsiasi forma anche quella degli animali e degli insetti che si rifiutava di uccidere, anche se lo infastidivano, credendo che “se rispetto la vita, quel rispetto tornerà in me in modi che nemmeno conosco”. A proposito della morte confidava che con gli anni, l’ansia della fine era diminuita, “perché se sei ansioso per la morte, allora non hai il senso dell’unicità delle cose”. Si augurava di affrontare questo momento ultimo con grazia, il talento che i critici cinematografici gli hanno sempre riconosciuto. Così è stato e ora quella grazia resta immortale nelle sue pellicole.
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