Noi irriducibili sostenitori della democrazia possiamo darla vinta al partito dell’astensione che, ad ogni tornata elettorale, innalza la sua asticella?
Un partito ormai trasversale, viste le dimensioni raggiunte in Italia. Tanto che è meglio non chiedere neppure ai parenti e agli amici. Perché la domanda del giorno è cambiata. Non più “per quale partito hai votato?”. Ma un molto più realistico: “Questa volta hai votato?”.
E alzi la mano chi non ha in famiglia, nella cerchia degli amici, ma anche nella propria comunità di appartenenza, qualcuno che abbia disertato le urne.
Naturalmente per scelta o per stanchezza, per disaffezione o per disistima, per rassegnazione o per protesta, per impeto moralistico o ascesso di realismo.
Ognuno, se interpellato, esprimerà le proprie personalissime ragioni. Ma proprio questa circostanza deve aiutarci tutti a riflettere. Perché il partito dell’astensione (legittima e democraticamente tutelata) non ha un leader, non ha un testimonial d’eccezione, non ha un volto che buchi il video e ci spinga a disertare le urne. Non ha, ci si passi il paradosso, una intenzionalità “politica”. Perché se tale fosse, almeno avremmo qualcuno con cui confrontarci e scontrarci. Che dovrebbe spiegarci le ragioni del rifiuto del voto e aiutarci a discernere. Per poi individuare, meglio se insieme, le soluzioni a questa emorragia di partecipazione.
Dunque, ci troviamo nelle peggiori condizioni e dobbiamo prendere atto che abbiamo dinanzi a noi un nemico davvero insidioso. Tanto che qualche analista si spinge ad affermare che “la crisi della democrazia rappresentativa è compiuta” o addirittura mette in guardia dal rischio di derive autoritarie. E qualche dubbio, a dire il vero si insinua anche in noi, perché quando minoranze sempre più esigue di elettori (pur attraverso la mediazione degli eletti che sono espressioni di partiti e coalizioni) scelgono per tutti, si fa fatica a delineare i contorni di una democrazia reale. E di un’amministrazione della cosa pubblica (soprattutto nelle diverse articolazioni territoriali) che risponda al criterio essenziale del bene comune. Se il cittadino rinuncia, scegliendo l’astensione, ad esprimere un giudizio sull’operato dell’amministratore pubblico, perché mai quel sindaco, quella giunta, dovranno domani farsi carico dei problemi di tutti? Una scelta di guida amministrativa povera di consensi è già un implicito lasciapassare per amministratori infedeli.
L’astensione generalizzata, oltre un certo limite, può favorire l’affermazione di un potere senza controllo, proprio per rinuncia del cittadino ad esercitare il proprio diritto a verificare e a indirizzare mediante lo strumento principe che, in democrazia, è ancora il voto libero e personale. E non ci si venga a dire che altri strumenti, vedi l’ubriacatura della democrazia digitale, possano prendere il posto delle elezioni a suffragio universale. Le democrazie, per ora, non hanno inventato di meglio. Anzi, hanno un bisogno fisiologico di tornare a farsi giudicare e rinnovare dal popolo sovrano.
Questa non è la sede per interrogarsi su chi si avvantaggi di questa disaffezione popolare (anche se qualche insidiosa valutazione si fa avanti), ma certamente è l’occasione per registrare la nostra sensibilità al problema della partecipazione. L’occasione anche per ribadire che si tratta di una grande questione educativa. Che, in quanto tale, ci interroga come credenti. Oggi, è inutile nasconderlo, ogni elezione ci pone (meglio, ci dovrebbe porre) dinanzi a quesiti essenziali. Di giustizia sociale come di salvaguardia antropologica. Forse è proprio questa griglia di giudizio che facciamo fatica ad elaborare e a suggerire come metro di pubblica valutazione. Sarebbe un piccolo contributo, forse essenziale, per prosciugare il mare dell’astensione. Prima che diventi un oceano che ci sommerga tutti.
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