Era il 1991 e una ragazza romana passava le sue serate alla Stazione Termini, per incontrare i suoi coetanei più disperati, con problemi di tossicodipendenza, disagio, Aids, e portare loro conforto. Oggi, a trent’anni di distanza, il seme gettato da Chiara Amiranteè diventato una foresta piena di alberi: la Comunità Nuovi Orizzonti. Riconosciuta dalla Santa Sede come associazione di fedeli di diritto pontificio, vanta 231 centri di accoglienza, formazione e orientamento, sei Cittadelle Cielo nel mondo, più di mille équipe di servizio e oltre 700mila “cavalieri della luce”. Spesso sono ragazzi strappati alle dipendenze che hanno scoperto la gioia del servizio. Ma tanti sono anche i sacerdoti: il 24 novembre 2002, nella solennità di Cristo Re, venne infatti inaugurata la “Casa di formazione al presbiterato”, per accogliere nel cammino di discernimento vocazionale e di formazione al sacerdozio quei ragazzi che desiderano vivere il loro ministero a servizio del carisma specifico di Nuovi Orizzonti.

Ha insegnato qui, occupandosi dei futuri sacerdoti, don Giacomo Pavanello, che oggi è parroco di San Giuseppe Cottolengo, che la diocesi di Roma ha deciso di affidare alla Comunità Nuovi Orizzonti. “Quando ero giovane – racconta – sono rimasto affascinato dal modello di evangelizzazione che mette in atto la Comunità, l’evangelizzazione di strada, la vita fraterna senza distinzioni clericali. Il prete dentro la Comunità stessa, inserito tra i laici e le famiglie, come accadeva tra i primi cristiani. Sono andato a vedere di persona e ho scoperto che tutto questo era realtà”. All’inizio degli anni Duemila, don Giacomo già studiava in seminario a Padova, ma poi ha deciso di trasferirsi nella Comunità e “percorrere dentro Nuovi Orizzonti l’ultimo tratto del mio cammino formativo. Il primo novembre 2009 sono stato ordinato sacerdote”.

Da allora si è occupato di evangelizzazione di strada, di accoglienza, di formazione. Finché, nel 2018, è diventato parroco di San Giuseppe Cottolengo, quartiere Aurelio. Una zona poco lontana dalla basilica di San Pietro, ma che per tanti versi è di transito e periferica, “sopraffatta dal traffico di chi va al lavoro, con la stazione di interscambio tra la ferroviaria Viterbo-Roma e la linea A della metropolitana, usata dalle migliaia di pendolari che giornalmente vengono a lavorare in città”. In alcune strade ci sono palazzine di quattro o cinque piani, in altre si passa all’edilizia popolare, fino ad arrivare alle baracche di extracomunitari e di persone che vivono ai margini.

“Non abbiamo la pretesa di realizzare una parrocchia migliore delle altre – dichiara –, anzi, io per primo sto imparando a fare il parroco, non l’ho mai fatto prima d’ora. Stiamo solo cercando di concretizzare quello che abbiamo sperimentato, lo stile comunitario, e tradurlo nella vita parrocchiale.

Non si fanno cose diverse, quindi, ma forse si fanno in modo diverso”.

La parola d’ordine, per don Pavanello, è inclusività. “Per noi non è importante dare un servizio, che può essere la catechesi o il centro di ascolto – spiega –. Le persone che vengono in parrocchia non devono trovare un servizio, ma devono trovare un amore che non hanno incontrato altrove, e questo è possibile solo se all’interno della parrocchia stessa si impara ad amarsi”.

Senza lasciare fuori nessuno. Anzi, aprendosi a tutto il territorio, anche a chi è lontano, nel solco del cammino sinodale iniziato da Papa Francesco. “Chi è la parrocchia? – domanda don Giacomo – Sono le persone che vengono a Messa? O non sono forse le persone che abitano in questo territorio? Che occupano un posto in questa zona? Tutti dovremmo avere a cuore un certo territorio, non solo le persone che frequentano la parrocchia. E non penso solo alle persone bisognose, ai senza dimora, ma anche alle famiglie ricomposte, alle forme di familiarità diversa rispetto a quelle a cui siamo abituati, agli anziani che vivono soli. Oggi la forma di povertà più grande è quella sociale. Dobbiamo testimoniare il desiderio di camminare insieme”.

(*) www.unitineldono.it

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