La politica vive di una regola antica: è credibile solo se la sua parola costruisce e rimane coerente. Se manca uno sguardo contemplativo sui bisogni del popolo e delle persone che lo formano, l’azione politica si svuota di strategia e di visione.
Ciò che rimane è tattica, schiacciata su due elementi antropologici che la Rete ha cambiato per sempre: il tempo vissuto come un eterno presente, che ci rende incapaci di ricostruire la memoria politica, e lo spazio vissuto come una navigazione a vista e non più come un cammino fatto di regole certe, in cui un politico trasmetteva all’altro la propria esperienza. È il tempo in cui la “parola debole” della politica, simile all’asta di un pendolo, oscilla tra il “prima” e il “dopo” la verità (dei fatti), senza più volerla riconoscere. L’aderenza alla realtà e il rigore del controllo delle fonti cedono il passo alla cultura della post-verità, in cui contano le credenze e le emozioni.
La cultura del M5S ha incarnato questo processo culturale, si è presentata al popolo come il nuovo Robin Hood ma, in realtà, ha agito come lo sceriffo di Nottingham, umiliando l’affidabilità delle loro parole politiche. Nei loro programmi il post-vero e il post-falso vengono posti sullo stesso livello. Eppure la parola data ha un peso in politica, altrimenti come ha scritto Hannah Arendt, la scrittrice tedesca perseguitata dai nazisti perché ebrea, spacciare menzogne per verità nasconde, oltre alla disonestà, un pericolo ancora più grande: «L’effetto della sostituzione della verità dei fatti con la menzogna non è solo che le bugie vengono accettate come verità e la verità considerata una bugia, ma che il senso con cui ci orientiamo nel mondo reale – e la differenza tra vero e falso è uno degli strumenti mentali che utilizziamo – viene distrutto». Ne era convinto anche il nazista Joseph Goebbels, quando sosteneva che «una menzogna ripetuta all’infinito diventa verità».
Quando è impossibile distinguere le parole politiche vere dalle bufale, la solidarietà dalla complicità, il costruire dal distruggere, chi restituirà alla popolazione la speranza di capire e la chiarezza per decidere? Così, «il senso con cui ci orientiamo nel mondo reale», aggiunge Hannah Arendt, «viene distrutto». E questo disorientamento finisce per spingerci all’immobilità e al silenzio.
Nel tempo dei populismi economia, politica e informazione si sono separate, così se la politica non si innova la tecnologia e il capitale globale governeranno senza controlli democratici. Al tempo della finanza globale, delle migrazioni e delle sfide del clima occorre pensare a una politica interconnessa e globale. I governi occidentali non hanno più il controllo della vita economica, così alzano la posta delle promesse per accontentare l’opinione pubblica. La storia, però, lo insegna: c’erano gli imperi, sono poi nate le Nazioni, stiamo andando verso un modello di nuovo ordine mondiale, una sorta di “spazio pubblico allargato” non necessariamente democratico.
La ricostruzione della memoria sociale è un primo antidoto. È necessario, poi, riflettere prima di condividere nei social quanto viene detto come slogan. È opportuno, infine, trovare il coraggio di segnalare le mancate promesse che strumentalizzano i più poveri e indifesi. Per attivare questi processi di responsabilità è indispensabile scommettere sull’unità e il bene di tutti, rispetto agli interessi di pochi.
L’altro antidoto è rilanciare il fondamento del “servizio pubblico”, che è nato per contrastare la propaganda dei regimi totalitari. La sua mission sta in tre verbi: educare, informare e intrattenere.
Su Vita Pastorale di agosto-settembre
0 commenti