Di Silvia Rossetti
Mentre per gli studenti si profila un rientro nelle aule con protocolli improntati alla “quasi” normalità, quindi senza scaglionamento degli orari in entrata e in uscita, rigido distanziamento e obbligo di mascherine, la scuola resta al centro di molte discussioni. Ad accenderle è ovviamente la campagna elettorale che fa della pubblica istruzione terreno di scontro e anche di rilanci. Tra i temi più dibattuti l’estensione dell’obbligo scolastico e il miglioramento delle carriere dei docenti. Più sommessamente si parla della riduzione del numero massimo degli alunni nelle classi, dell’ampliamento del tempo scuola e della gratuità di alcuni servizi come mensa e trasporti.
Quello che continua a mancare nelle agende dei politici e che dovrebbe fare da sfondo a qualsiasi tipo di cambiamento è un progetto educativo globale da realizzare in sinergia con famiglie, scuola, territorio e mondo del lavoro.
I giovani, intanto, tentato di far sentire la propria voce, protestano, scendono in campo, oppure si rifugiano sconfitti in evasioni consolatorie e virtuali, di fatto non riescono a guadare quella pericolosa palude che li trattiene in ostaggio. Subiscono l’incantesimo del “tempo sospeso” che spesso li annichilisce e li disarma, li deruba della fiducia in se stessi e negli altri.
Si parla troppo poco dei “dispersi” della scuola, quelli che restano fuori anche dai circuiti professionali ed economici perché privi di requisiti appetibili. Vengono chiamati Neet (in inglese, not in employment, education or training) e in Italia sono oltre tre milioni, di età compresa tra i 15 e i 34 anni. I dati Istat sono poco confortanti, il fenomeno riguarda il 24 per cento dei giovani (uno su quattro) e la tendenza pare in crescita. Alcuni di loro sperimentano il ritiro sociale, decidono di non uscire più di casa e di allontanarsi dai coetanei più fortunati.
Il fenomeno dei Neet è però soltanto la punta dell’iceberg: l’esito di una serie di scelte sbagliate, individuali, familiari, ma soprattutto male orientate da un sistema che non valorizza efficacemente le potenzialità dei giovani e tende a non afferrare fino in fondo i bisogni dei singoli. La scuola è ancora troppo ripiegata sulla perfomance, poco attenta ai diversi stili di apprendimento, non realmente inclusiva. Una scuola ancora troppo “povera” di risorse, nonostante i recenti finanziamenti per lo più finalizzati alla realizzazione di progetti e non destinati a risolutori interventi sistemici. Si tende ad “ampliare” l’offerta formativa, senza qualificarla realmente e senza aprire la scuola al mondo.
La pandemia, sotto questo punto di vista, ha fatto emergere le fragilità di un sistema spesso ipertrofico e autoreferenziale. Ha lasciato aperte le ferite e acuito il senso di sconforto soprattutto fra gli studenti più fragili e svantaggiati. Intanto anche disagio e malessere adolescenziale hanno subito un’impennata e le famiglie spesso non trovano all’interno del proprio nucleo gli strumenti per poter sostenere i figli.
I percorsi di orientamento potrebbero offrire buone risposte a chi è alla ricerca del proprio talento e prevenire abbandono e dispersione scolastica, ma dovrebbero essere alla base dei processi stessi di apprendimento. Orientare non vuol dire solo fare l’elenco degli eventuali studi superiori e degli sbocchi professionali più richiesti nel mercato del lavoro, oppure propinare i progetti di alternanza scuola-lavoro magari percepiti dagli studenti come una sterile imposizione. Orientare significa comprendere il valore della formazione e della cultura, scoprire attraverso di essa le proprie attitudini ed essere accompagnati dai docenti nel percorso dell’autovalutazione.
Non basteranno, dunque, i proclami, gli slogan e le promesse per sanare questo Paese che può rinascere soltanto offrendo nuove possibilità ai giovani e, quindi, al futuro di tutti noi.
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