Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata ai libri. Questa settimana abbiamo intervistato l’autore Riccardo Manzini che dal 2006 si dedica alla scrittura di poesie e racconti in dialetto e in lingua, in cui tratta temi originali. Inoltre ha scritto diversi sketches teatrali, traducendo in dialetto marchigiano note commedie. Nel titolo del suo recente lavoro letterario “30 Marzo 1935 – La fine del mondo” l’autore prende spunto da un fatto realmente accaduto nel mare Adriatico, quando un fortunale si abbatté sulle coste marchigiane e abruzzesi provocando la morte di 110 persone.
Perché ha deciso di riportare alla memoria, attraverso il suo lavoro letterario, questa tragedia?
Si dice che il tempo sia un grande medico, perché nel suo scorrere attenua gli effetti dei grandi dolori. Il tempo però, purtroppo, applica questo suo “effetto cancellazione” anche su fatti che meriterebbero di essere ricordati, e che nostro malgrado dimentichiamo. Ecco, deformare i fatti e la loro verità a questo punto diventa inevitabile; con questo lavoro ho voluto ristabilire la verità di quei lontani avvenimenti, desunta dalle interviste di testimoni diretti, da persone di provata affidabilità cui i fatti erano stati narrati e dai documenti ufficiali dell’epoca, prodotti da Prefettura di Ascoli e Comune di Porto San Giorgio, senza dimenticare gli articoli di giornale del periodo.
Lei dedica questo suo libro “a tutti i lavoratori del mare che, a prezzo di duri sacrifici, si guadagnano pane e vita per sé e per la propria famiglia”. Quanto c’è della sua esperienza personale, dato che proviene da una famiglia di pescatori che hanno solcato le acque di tutti i continenti, in questo suo lavoro?
I racconti di mio padre, con le sue vite vissute in Argentina e Nord America, sono sempre stati un forziere inesauribile di esperienze. La mia generazione, però, è stata “obbligata” ad esercitare mestieri più attinenti alla vita odierna. Gli elevati costi di gestione hanno altresì consigliato i giovani a intraprendere mestieri più remunerativi. Mettiamoci anche la diminuita richiesta di risorse umane, dato che, grazie ai moderni dispositivi (rilevatori satellitari, radar, verricelli motorizzati…) oggi, per condurre un peschereccio, bastano tre persone invece che le sei di ieri. Nel mio piccolo, ho mantenuto la “poesia del mare” che emerge (il verbo non è usato a caso) quando si viene a contatto con questa immensa distesa di acqua. Ricordo a proposito, con piacere, quando, undicenne, mi affidarono temporaneamente il timone del peschereccio di famiglia in parte della tratta Ancona-Porto San Giorgio. Inoltre, essendo mia moglie sarda, ho percorso numerose volte il tragitto tra il cosiddetto continente e l’isola dei Nuraghes anche in condizioni di mare avverse: ricordo una volta, di notte, per ammirare la forza di questo elemento, osai andare a prua all’aperto e quando il traghetto uscì dal porto di Arbatax, sembrò di piombare in un’atmosfera da incubo. Ho avuto anche la ventura di lavorare diversi mesi su navi militari di un Paese straniero.
Un volume frutto di un accurato lavoro di ricerca storica, attraverso testimonianze. Tanti anche gli articoli di stampa riportati nelle ultime pagine. In che modo è riuscito a recuperare tutto il materiale?
Le fonti che ricordo con maggior piacere sono quelle delle persone che mi hanno fornito testimonianze dirette: i lunghi pomeriggi passati a registrare le parole di mio zio mentre il turbinio dei suoi ricordi gli attraversava la mente. Mio zio, all’epoca dei fatti, era un mozzo quindicenne. Mio padre, come detto, è sempre stato un bravissimo narratore ma, in questo caso, non ho potuto avvalermi del suo contributo perché non ha vissuto quell’esperienza, essendo nel 1935 un emigrante ventiseienne in terra d’Argentina. Mi è stato di valido supporto un vecchio lupo di mare, Franco Quondamatteo, classe 1926: una mente lucida e preziosa nei gerghi marinari e nella composizione delle famiglie sangiorgesi. Mi ha raccontato la storia, riportata nel libro, della morte per annegamento del fratello dodicenne, avvenuta un anno e due mesi prima del 30 marzo 1935. Devo ringraziare tanta gente e non posso dimenticare Giuseppe Perfetti del Centro Studi Portorecanatasi che mi ha messo a disposizione il bellissimo dvd “Per non dimenticare”, relativo a quegli eventi e Giuseppe Merlini di San Benedetto del Tronto, appassionato esperto delle attività legate alla navigazione e alla pesca, il quale mi ha inviato i dati del fortunale conservati presso l’Archivio della Prefettura di Ascoli Piceno.
Attraverso queste pagine lei vuole omaggiare anche il coraggio e l’eroismo delle tante persone che non esitarono a rischiare la propria vita per salvarne delle altre.
In situazioni estreme come quella non puoi bluffare. Sul Titanic che stava affondando sono state scritte grandi pagine, di codardia e di eroismo, elementi ampiamente presenti nell’animo umano. Anche quella notte un’imbarcazione stava affondando, un peschereccio con a bordo sei marinai impauriti. Ebbene, in quello scenario che doveva essere veramente spaventoso, ci fu chi, a nuoto, affrontò il mare in tempesta portando una cima sul peschereccio e traghettando l’equipaggio verso la salvezza. Trovo che certi atti di autentico eroismo vadano maggiormente celebrati e additati come esempio ai giovani, e i loro autori mai dimenticati come invece, purtroppo, capita spesso oggigiorno.
Un volume ricco di immagini in bianco e nero che rendono l’idea, anche visivamente, dei molti sacrifici che affrontavano quelle persone colpite dalla tragedia. Proprio su questo argomento ha realizzato anche una versione teatrale. Come è nata l’idea?
Quando ho terminato la stesura del libro “30 Marzo 1935 – La fine del mondo” non pensavo di farne una versione teatrale. L’idea è sorta successivamente e spontaneamente, favorita anche dall’interesse suscitato dalle due presentazioni del libro, che hanno richiamato una grande partecipazione di cittadini, molti legati alle persone e agli avvenimenti di quel giorno. Mi rendo conto che la messa in scena presenta difficoltà dovute alla complessità degli eventi, che richiederebbero particolari effetti speciali e al grande numero di persone/attori che dovrebbero essere coinvolti. Speriamo però, con il contributo del Comune e la bravura del regista Gabriele Claretti, di superare le difficoltà e di completare il progetto che rappresenta la storia del paese. E non solo del nostro.
Quali sono i progetti sui quali sta lavorando?
Sono di vocazione adulta e solo dal 2006 ho iniziato a scrivere. Ho cominciato con poesie in dialetto locale con il (presuntuoso) fine di dare più dignità al dialetto, uscendo dai soliti canoni un po’ volgarotti che spesso ricercavano la risata sgangherata più che l’emozione poetica. Ho cercato di dare il mio modesto contributo affrontando temi di attualità e anche esistenziali. Dicono che l’appetito viene mangiando, ed allora ho proseguito con poesie in lingua, racconti brevi, sia in italiano che in dialetto, sketches per il teatro e anche traduzioni in vernacolo di opere importanti come “Le baruffe chiozzotte” di Goldoni, diventate per noi “Le Scagnerate”. Ho riunito tutte queste opere in un volume “La macchinetta rossa” che era “quasi pronto” prima che mi dedicassi al libro sul fortunale. Ora il libro aspetta di essere completato con i riferimenti agli ultimi irripetibili avvenimenti che stiamo vivendo, prima di essere sottoposto all’ultima correzione. Speriamo di arrivare presto a conclusione, anche perché ignoriamo i progetti che hanno su di noi al “Piano di sopra”.
Lo scrittore Manzini, presente con i suoi lavori letterari in numerose antologie regionali e nazionali, ha ricevuto riconoscimenti nell’ambito di diversi concorsi nazionali e regionali tra i quali il premio “Alda Merini” a Catanzaro, “I segreti di Pulcinella” a Firenze alla Casa di Dante e il “Premio Adriatico 2022”. Inoltre ha partecipato al premio nazionale “Pelasgo”. E’ autore dell’Inno di Porto San Giorgio e, nel gennaio 2013, ha partecipato alla “Giornata Nazionale del Dialetto” tra tutte le Pro Loco d’Italia con due poesie ed un racconto.
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