DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.
Per ben quattro volte negli otto versetti del Salmo 119 che la liturgia oggi ci propone si ripete una parola precisa: custodire! «Beato chi custodisce i suoi [del Signore] insegnamenti…siano stabili le mie vie nel custodire i tuoi decreti…insegnami, Signore, la via dei tuoi decreti e la custodirò fino alla fine…dammi intelligenza perché io custodisca la tua legge».
Custodire gli insegnamenti del Signore, i suoi decreti, la sua legge, ovvero, custodire la Parola del Signore.
Ma cosa vuol dire custodire? Custodire qualcosa significa innanzitutto avere la consapevolezza che quel qualcosa è importante, ha un valore e merita tutta la nostra cura, attenzione, protezione.
L’atteggiamento del custodire è rivolto sempre a ciò che è prezioso e che dunque è degno del tempo e della fatica che gli dedichiamo. Ma essere custodi implica anche riconoscere che quel qualcosa o quel qualcuno che custodiamo ha valore in se stesso: un valore che non dipende da noi e che ci trascende; non ne abbiamo mai, in nessun caso, la proprietà.
E se qualcosa ha davvero valore, la sua custodia è un compito che va al di là di come oscillano le nostre emozioni e i nostri umori: ciò a cui riconosco valore merita di venire preservato e non verrà gettato via alle prime difficoltà.
Quindi mantenere, curare, provvedere, badare, riconoscere…in una parola custodire la Parola del Signore. Il salmista lo canta con forza perché ha fatto esperienza di questa non come un comando, una regola da osservare, precetti da non violare ma come incontro personale con il Signore, un ascolto e una custodia fatte di osservanza non servile, ma filiale, fiduciosa, consapevole, una obbedienza libera, un consenso amoroso.
Dio ha dato all’uomo, lo leggiamo nella prima lettura tratta dal libro del Siracide, un cuore per discernere il bene e il male, ma sta all’uomo la scelta. Se la scelta è custodire la Parola, l’uomo sarà beato, sarà felice perché sperimenterà, a sua volta, la bellezza dell’essere custodito, secondo tutte quelle accezioni di cui parlavamo all’inizio.
Scrive ancora infatti l’autore del Siracide: «Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai».
Nessuna osservanza legalistica ma un essere e un sentirsi reciprocamente custoditi, una relazione d’amore che ci chiede, come tale, un passo in più.
«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli». Scribi e farisei, coloro che, come spesso facciamo oggi anche noi, si costruivano una millimetrica e puntualissima serie di leggi così da poter dire a Dio, come ad un irreprensibile funzionario “ho fatto tutto, non ho sgarrato!”. Una sorta, cioè, di grande calcolo con Dio, conteggi, punti, guadagni e debiti, ricompense, punizioni da sommare e sottrarre per ottenere il risultato finale del “condannato o salvato”.
Gesù ci chiede una “giustizia superiore”, ci chiede di fare un passo in più, di prendere in mano la nostra fede, il nostro credo, la nostra vita, perché trovino il loro centro e il loro fondamento in una relazione di libertà con Lui, perché possiamo tornare a vivere e testimoniare il primato della relazione e non il primato del rito, della formalità, della pura norma.
Questo vuol dire che l’obbedienza alla legge, che comunque Gesù chiede, non è necessità, non è costrizione, ma esercizio di libertà all’interno di una relazione di amore.
Invochiamo allora il Signore e con il salmista preghiamo: «Aprimi gli occhi perché io consideri le meraviglie della tua legge».
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