Sergio Perugini
Parabole di riscatto. Questo sembra essere il filo rosso che corre in gran parte delle statuette consegnate a Los Angeles, domenica 12 marzo, nella notte dei Premi Oscar. Molte le storie di rinascita: personali, professionali, sociali. Anzitutto suona come una vittoria degli “underdog”, il trionfo del duo Daniels, ovvero Daniel Kwan e Daniel Scheinert: con il loro folle, poetico e visionario “Everything Everywhere All at Once” hanno scalzato sia i kolossal “Avatar: La via dell’Acqua” e “Top Gun: Maverick” sia i trionfatori dei festival “Gli spiriti dell’isola” e “Tár”, compreso il decano Steven Spielberg. I Daniels hanno staccato tutti, portando a casa sette riconoscimenti di peso, tra cui miglior film e regia. Diffusa commozione poi per le vittorie degli interpreti: i protagonisti Brendan Fraser e Michelle Yeoh, i non protagonisti Ke Huy Quan e Jamie Lee Curtis. Tutti loro hanno abitato prolungate zone d’ombra.
“Everything Everywhere All at Once”: una vittoria dai molti significati
Un risultato rumoroso quello riportato dai Daniels con il loro film “Everything Everywhere All at Once”, una produzione targata A24, realtà indipendente che lega il suo nome all’autostrada italiana. Sette Oscar, praticamente tutti quelli di prima fascia: film, regia, attrice protagonista Michelle Yeoh, attori non protagonisti Jamie Lee Curtis e Ke Huy Quan, come pure sceneggiatura originale e montaggio. Insomma, i grandi Studios e colossi streaming sono stati superati da una “piccola” realtà che ha deciso di scommettere su un progetto audace, visionario, folle.
“Everything Everywhere All at Once” ci racconta la società statunitense oggi, una famiglia di immigrati di origine asiatica che con fatica prova a integrarsi, proteggendo le proprie radici culturali. Una storia che mette a tema il dialogo familiare disperso: quello della coppia cinquantenne formata da Evelyn (Michelle Yeoh) e Waymond (Ke Huy Quan), dove sembra essere rimasto poco amore, oltre che poche parole; e quello inesistente tra madre e figlia, la ventenne Joy (Stephanie Hsu). Tra loro è aperta conflittualità, per incomprensioni caratteriali, diverso stile di vita e omosessualità mai accettata. Il tutto non viene però declinato in maniera lineare, bensì ricorrendo al fantastico, lungo i sentieri del Multiverso. Un racconto giocato sul binario oppositivo bene-male, implosione-salvezza. I Daniels regalano un’intensa fotografia della periferia americana filtrata dalle lenti dell’ironia a tratti grottesca, con citazioni cinematografiche-filosofiche sul tracciato del cult “Matrix”. Una suggestione colta ed estrosa, figlia di una cultura nerd.
Un film spiazzate, ilare, ma anche profondamente lirico, tratto che emerge con potenza soprattutto dall’interpretazione di Michelle Yeoh. Magnifica, al punto da convincere i giurati dell’Academy di poter meritare la statuetta più della quasi inarrivabile Cate Blanchett (“Tár”). A far decollare il sogno di Michelle Yeoh è stata anche l’opportunità di raggiungere un traguardo significativo dal punto di vista dell’inclusione: l’attrice è infatti la prima asiatica a trionfare nella categoria apicale dell’Academy; in più, arriva al podio a sessant’anni, facendo dunque intendere che c’è spazio per le interpreti di ogni età a Hollywood, che sembra aver fatto tesoro del Me Too e delle accese proteste. Aspetto che emerge anche dalla vittoria di Sarah Polley per la miglior sceneggiatura non originale per “Women Talking. Il diritto di scegliere”.
Storie simbolo di rinascita
La vittoria di Brendan Fraser per lo struggente “The Whale” chiude un percorso inaugurato lo scorso settembre a Venezia79, dove il film era stato presentato in Concorso. È vero, lì non aveva vinto la Coppa Volpi – andata al collega Colin Farrell, ritrovato anche nella cinquina dell’Oscar –, ma da subito è stata a tutti chiara l’interpretazione maiuscola di Fraser, il ruolo giusto per rimettersi in pari con la vita, con la propria vicenda personale-professionale. Un ruolo che si lega anche alla vicenda narrata nel film, alla storia di un uomo spiaggiato, vinto, che prova a rimettersi in piedi in una disperata richiesta di salvezza e misericordia; un film che annoda le proprie maglie con quelle del romanzo di Herman Melville “Moby Dick”. Vibranti le parole di Brendan Fraser ritirando l’Oscar, con sguardo sbalordito e voce incerta: “Ringrazio Darren Aronofsky per avermi salvato. Per me è stato come scendere sul fondo dell’Oceano e poi risalire. E sono riuscito a risalire perché mi hanno aiutato”.
Una rivincita che risuona forte anche nelle vicende degli attori non protagonisti, Ke Huy Quan e Jamie Lee Curtis, star del film dei Daniels. Il primo ha conosciuto il successo da preadolescente, accanto a Steven Spielberg (“Indiana Jones e il tempio maldetto” e “I Goonies”), poi sono seguiti decenni di silenzi, di inattività e sogni infranti. Ora “Everything Everywhere All at Once” lo ha rimesso al centro della pista. Con la voce rotta dall’emozione, Ke Huy Quan ha dichiarato: “Questo è il vero sogno americano. Ringrazio mia moglie che per 22 anni mi ha ripetuto costantemente che un giorno sarebbe arrivato il mio momento. Per questo dico a voi tutti, mantenete vivi i vostri sogni!”. Lo stesso anche Jamie Lee Curtis, figlia d’arte – i genitori sono Tony Curtis e Janet Leigh –, relegata per troppo tempo nel perimetro del cinema di genere. Passati i sessant’anni, anche lei ha rotto gli steccati, finalmente presa sul serio.
Convince l’Europa contro gli orrori della guerra
Premi di peso anche per il cinema europeo. Il film tedesco “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Edward Berger, targato Netflix, ha conquistato l’Oscar come film internazionale, scenografia, fotografia di James Friend e colonna sonora di Volker Bertelmann. Un risultato significativo, non solo per la cinematografia tedesca, ma anche per il potente messaggio di denuncia contro ogni conflitto, vertigine che divora ferocemente generazioni di giovani.
Idealmente è un riconoscimento per l’Italia l’Oscar per la miglior animazione andato al regista Guillermo del Toro, al suo “Pinocchio”: la nuova versione in stop-motion, sempre targata Netflix, valorizza il classico di Carlo Collodi. Ricevendo la statuetta Del Toro ha dichiarato: “L’animazione è il cinema. Mantenete viva l’animazione nelle vostre conversazioni”. I due candidati italiani, invece, non ce l’hanno fatta: il delizioso corto animato “Le pupille” di Alice Rohrwacher (prodotto da Alfonso Cuarón) è stato battuto da “An Irish Goodbye”, mentre a “trucco-parrucco” di Aldo Signoretti per “Elvis” è stato preferito quello di “The Whale”.
Su e giù dal podio
Se i Daniels fanno bottino, escono praticamente a mani vuote i grandi favoriti Steven Spielberg con “The Fabelmans” e Martin McDonagh con “Gli spiriti dell’isola”. Nulla anche per “Elvis” di Baz Luhrmann né per “Tár” di Todd Field. Quasi a mani vuote, poi, i film che hanno salvato il botteghino, “Avatar. La via dell’acqua” di James Cameron e “Top Gun: Maverick” legato a Tom Cruise: il primo incassa la statuetta per gli effetti speciali, il secondo per il sonoro. Segnali che ci dicono che Hollywood è in cerca di sperimentazione, di nuove rotte narrative e sguardi, all’inseguimento di un pubblico in continua, velocissima, evoluzione.
Ancora, delusione per il mancato premio al brano “Hold My Hand” di Lady Gaga (sempre “Top Gun: Maverick”), battuto dal tormentone “Naatu Naatu” dal film indiano “RRR”. A ben vedere, però, la cantante si è presa la scena della serata, esibendosi nella cerimonia con un’intensa performance live, ricordando inoltre il compianto regista Tony Scott.
Commozione, infine, per il consueto momento di ricordo delle star scomparse, “In memoriam”: su accompagnamento musicale di Lenny Kravitz, è stato introdotto da John Travolta con gli occhi lucidi e la voce strozzata per l’amica Olivia Newton-John. Tanti i nomi e i volti degli indimenticabili come Angela Lansbury, Burt Bacharach, Irene Cara, Robbie Coltrane, Kirstie Alley, l’icona Gina Lollobrigida e il truccatore Maurizio Silvi.
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