Irene Giuntella
“I diritti umani e la vita devono essere sempre al centro di qualsiasi decisione politica o di governo presa nel rispetto del diritto internazionale e delle normative europee esistenti”. Lo afferma al Sir, José Luis Bazan, consigliere legale per le politiche migratorie della Commissione delle Conferenze episcopali nell’Unione europea (Comece). Dopo la tragedia a Steccato di Cutro, nel crotonese, ci si interroga sulle responsabilità sul versante migratorio dell’Italia, dei singoli Stati, e dell’Unione europea. Quest’ultima, occorre ricordare, non ha competenza nel controllo dei confini dei singoli Paesi, ma solo un ruolo di coordinamento e linee guida. “Credo che nessuno voglia veder morire le persone in mare. Il punto è che dobbiamo far funzionare un meccanismo con i Paesi che sono coinvolti ai confini Ue (certamente Grecia, Spagna, Francia, Italia e altri), ma dobbiamo considerare anche che questa non è una faccenda solo europea, è piuttosto una questione internazionale che principalmente coinvolge i Paesi del Nord Africa, i Paesi balcanici e del Sud Europa. Sono coinvolti anche i Paesi di origine (come il Sahel, il Pakistan, Afghanistan e altri)”, sottolinea Bazan.
Quale luogo è “sicuro”? La migrazione dovrebbe dunque essere vista “come una questione globale che coinvolge i diversi continenti” e non può essere limitata a singole regioni o zone. “La normativa internazionale – dice Bazan, da noi raggiunto nella sede Comece di Square de Meeus a Bruxelles – parla di un porto sicuro per far sbarcare le persone in pericolo, ma quale luogo può essere considerato sicuro?”. Da parte dei governi si considera luogo sicuro là dove le persone non sono più in pericolo in mare. “Ma non è sufficiente: un porto è sicuro, se le persone, dopo essere sbarcate, non soffrono persecuzioni e la loro vita e libertà non sono messe in pericolo. Per la Ue questo luogo dovrebbe essere quello in cui sono rispettati tutti i diritti umani”, sottolinea Bazan.
Regole da modificare. Se si trattasse di singole persone in arrivo ogni Stato sarebbe in grado di gestirle. “Quando parliamo invece di centinaia, migliaia di persone, non si tratta solo di operazioni di ricerca e salvataggio, ma di mettere in atto politiche di migrazione per accogliere e integrare queste persone”, aggiunge. “Credo che non ci sia alternativa alla necessità di una cooperazione tra i Paesi di origine e di transito che si trovano sulle rotte della migrazione, perché alla fine quando le persone sono in pericolo in mezzo al mare l’unica opzione possibile è quella di salvarle”. Le convenzioni internazionali sui soccorsi in mare “si rifanno a norme di quaranta anni fa, sono del 1974 e 1979, quando si prevedevano casi sporadici, ora invece le premesse sono cambiate e succede continuamente che ci sia necessità di un soccorso alle imbarcazioni perché i trafficanti utilizzano, intenzionalmente, mezzi che sarebbero da rottamare e mettono nei serbatoi solo metà del carburante necessario”. Dunque, “dovremmo piuttosto modificare le normative o creare un nuovo strumento di diritto internazionale che risponda alla situazione?”, riflette a voce alta Bazan.
Cooperazione internazionale. La possibilità di muoversi dai Paesi di origine è aumentata; si sono moltiplicate anche le condizioni di disperazione che spingono le persone a emigrare. “Ci sono inoltre nuovi fattori che intervengono, come la mafia e i trafficanti”. Un tema da affrontare con urgenza è la necessità di una cooperazione internazionale per bloccare i canali finanziari utilizzati dalle mafie e i trafficanti che spostano le persone tramite piccole barche vecchie caricandole con un numero di persone che eccede la capacità.
“Intervenire senza ritardi”. Ogni Paese ha un’area di responsabilità territoriale e non appena c’è un incidente sono le autorità di quel Paese a dover intervenire: “nessuna nave può essere salvata e cercata senza essere in contatto con le autorità dello Stato responsabile”, spiega Bazan. Ci sono un protocollo e regole di sicurezza che vanno seguite per le operazioni di ricerca e soccorsi. “È un problema però quando le autorità non rispondono o danno risposta in ritardo perché le regole delle operazioni di ricerca e soccorso affermano che si deve intervenire senza ritardi: non si tratta solo di portare i naufraghi in un luogo sicuro, ma di portarli in tempo, certo non dopo dieci giorni”, sottolinea. A volte si ritarda a intervenire pensando che sarà un altro Paese a farsene carico. “Le circostanze possono essere sempre differenti, ma far sbarcare un gran numero di persone in piccoli Paesi come Malta, non è sicuro rispetto alle risorse economiche e territoriali del Paese”, precisa. Sarebbe più sicuro farle sbarcare in Paesi con maggiori risorse. “La Libia non è un Paese sicuro perché non rispetta i minimi standard di rispetto dei diritti umani. Ma perché altri Paesi, come la Tunisia, non sono considerati? Questa è una questione che non può essere considerata solo europea”, insiste Bazan.
I ricollocamenti non funzionano. Nell’Ue si sta discutendo da tempo della condivisione delle responsabilità e si sta procedendo all’adozione dei singoli dossier che compongono il nuovo Patto Ue per la migrazione, ma i ricollocamenti non funzionano: “penso che per l’Italia, o Malta, o un altro Paese, non ci sarebbero problemi a salvare le persone o sbarcarle in un proprio porto, se poi il meccanismo di ricollocamento funzionasse. Ma basta che uno step della politica di migrazione, come ad esempio i ricollocamenti, non funzioni per far saltare tutti i passaggi”, spiega l’esperto Comece. “Accogliere un gran numero di persone senza risorse adeguate può portare a cambiamenti nella società e anche nella politica del Paese. Bisogna tener conto anche degli effetti secondari. Questi principi devono essere tradotti nelle politiche di migrazione, ma è difficile trovare accordo tra i Paesi”.
Lotta ai trafficanti, corridoi umanitari. Altro tema importante è come conciliare la necessità di salvare le persone senza alimentare il business dei trafficanti che continua a crescere. “Sappiamo che adesso i trafficanti mettono solo metà del carburante perché sanno che ci saranno navi private che andranno a salvare i migranti in mezzo al mare”, spiega. Le chiese, le Ong e altre organizzazioni umanitarie stanno chiedendo sempre di più l’utilizzo di corridoi umanitari. Ma anche questo strumento deve essere perfezionato, come sottolinea Bazan, perché non basta solo portare le persone in salvo; bisogna fare in modo che abbiano un lavoro per sostenersi.
Solidarietà, responsabilità e generosità. “Papa Francesco parla di ‘accogliere, proteggere e integrare’, è una catena di step collegati tra loro, ne siamo capaci?”, si interroga nuovamente Bazan. Anche prevedere solo un sussidio per i rifugiati senza integrarli man mano in un lavoro che corrisponda alle loro competenze rischia di creare nelle persone disturbi psicologici e mantenerle escluse dalla società. “Ci sono difficoltà oggettive che da decenni i governi non riescono a risolvere come la disoccupazione giovanile in Spagna o in Italia, la questione è quindi come fare spazio ai nuovi arrivati pensando però anche alle persone del luogo e alle loro difficoltà economiche e occupazionali”, ribadisce Bazan. Persino in Belgio, un Paese considerato ricco, secondo il sito The Brussels Times, un bambino su cinque fa solo un pasto al giorno perché le famiglie non riescono a sostenere i costi dei pasti. C’è sicuramente quindi la necessità di accompagnare politiche sociali e occupazionali alle politiche migratorie e sostenere concretamente i Paesi in questo cammino per attuare i tre principi di solidarietà, responsabilità e generosità nei soccorsi e l’accoglienza dei migranti e rifugiati in Europa.
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