Di Ana Fron

MARTINSICUROMartinsicuro è la località con la maggior percentuale di stranieri, di tutta la Diocesi di San Benedetto, Ripatransone e Montalto delle Marche. Il suo tessuto sociale si compone di una varietà multiculturale e multietnica “vivida”, difficile da trovare altrove nella zona. La convivenza tra le persone a volte non è semplice ma comunque qui si sperimentano, giorno dopo giorno, forme coabitative improntate sulla solidarietà e sulla comprensione dell’alterità; perché, a questo porta l’esperienza migratoria: a vedere nel prossimo semplicemente un compagno di viaggio.

Albanesi, rumeni, ucraini, russi, marocchini, tunisini, africani di altri paesi, asiatici e americani condividono il vissuto da buoni vicini, in maniera intelligente, e fanno di Martinsicuro la loro casa comune.

A Martinsicuro tra i tanti stranieri (14,7% della popolazione residente), c’è anche Suzana, arrivata in Italia dall’Albania, con la sua bella famiglia già costruita: marito e due figli piccoli.

Suzana, ci vuoi raccontare quando sei arrivata in Italia e come è nata la decisione di immigrare con tutta la famiglia?
Si. Certo. Sono arrivata in Italia nel 1998. Di preciso, il 15 novembre. Mi ricordo bene quella giornata. Era una domenica piovosa, che sembrava piangesse per me. Quando si parte da un luogo del cuore, anche avendo dei progetti di miglioramento della vita, è sempre triste.
Ero felice per l’opportunità ma anche triste, di lasciare il mio paese e le persone care. Come se, noi migranti, non avessimo diritto alla felicità “tutta tonda” ma, solo ad uno spicchio. Grande o piccolo che sia.
Ero triste anche perché, in Albania io ero già realizzata. Insegnavo storia e geografia al Liceo Classico di Durazzo.
Ma, per il contesto storico, sociale e politico che attraversava il Paese e, per motivi di lavoro di mio marito, siamo dovuti partire.

Che lavoro faceva tuo marito in Albania?
Lui era un comandante di nave, che trasportava merci da e per l’Italia. Quindi, facendo la tratta Albania Italia 2 o 3 volte alla settimana, veniva visto da alcuni cittadini albanesi come un’occasione per attraversare in maniera illecita l’Adriatico.
Mio marito non poteva né voleva trasportare passeggeri, in quanto la sua nave non era abilitata a questo, e perciò minacciavano me e i nostri figli.
Dunque, ci siamo sentiti in pericolo e abbiamo deciso di comune accordo di lasciare l’Albania, almeno fino a quando non fosse migliorata la situazione socio politica. Ai tempi, il paese viveva un periodo di transizione, tra il comunismo che se ne andava scemando, a poco a poco, e la ricostruzione postuma.

Quale è stato il luogo di primo approdo in Italia? Dove vi siete trasferiti?
Siamo arrivati a San Benedetto del Tronto, a Porto D’Ascoli per la precisione.
Qui, mi sono trovata bene fin da subito; sia dal punto di vista economico che sociale quindi, abbiamo deciso di stabilirci definitivamente.

Tuo marito ha continuato a lavorare sulle barche; dato che San Benedetto è una località di pescatori?
Solo per qualche tempo. Andava a pescare tonni ma poi, si è riprofilato come autotrasportatore. Tuttora lavora in questo campo.

Ed è felice della scelta? Dopotutto era un comandante di nave.
Ha rimpianto il lavoro al quale ha dovuto rinunciare, lascando l’Albania, ma ha guardato i risvolti positivi: è riuscito a mettere in salvo la sua famiglia, dando ai figli l’opportunità di studiare e di realizzarsi. Inoltre, ha aiutato anche me a raggiungere obiettivi importanti.

A proposito di obiettivi, una volta a San Benedetto, avendo due bambini alle elementari, come ti sei mossa per trovare lavoro?
Il problema grosso per trovare lavoro era costituito dalla non conoscenza della lingua. Non parlavo per niente l’italiano.

Ti sei aiutata con qualche corso? Penso che, a un’insegnante come te, lo studio anche di una nuova materia, non faccia per niente paura.
Proprio così. Mi sono proposta fin da subito di imparare la lingua, cercando in giro qualcuno che me la potesse insegnare.
L’opportunità si è presentata subito ed io la ho accolta senza battere ciglio. Presso la scuola media “Cappella” c’erano corsi serali di lingua italiana (L2), per stranieri adulti. Per due anni ho studiato la lingua fino a quando non ho acquisito le basi. Mi serviva imparare bene per socializzare e per i miei progetti lavorativi. Volevo convalidare la mia laurea albanese in Italia ed insegnare.

Ti è stato subito chiaro quale percorso potevi intraprendere per concretizzare questo piano?
Non proprio. Ho provato varie strade. Mi sono qualificata come mediatore culturale, con un corso post laurea e poi ho eseguito un Master di primo livello in Politiche per i migranti, presso l’Università di Macerata.  Questa nuova specializzazione mi ha portato per un po’ di anni a lavorare come mediatore culturale e facilitatore linguistico presso le scuole della provincia, presso i presidi sanitari e gli enti giuridici ma, per quanto bello, questo lavoro non mi soddisfaceva.

Vediamo se indovino: era un lavoro saltuario e poco retribuito, che non permetteva né un riconoscimento professionale e nemmeno di contribuire un granché all’economia della famiglia?
Esatto! La figura del mediatore culturale è tanto necessaria in Italia, nelle scuole, nella sanità, ecc, ma poco riconosciuta al livello di professionalità dunque, è male e poco impiegata. A scuola c’erano poche ore per i bambini appena arrivati; tanto bisognosi di aiuto, almeno nella prima fase. I bambini, all’incontro con una nuova realtà, un nuovo gruppo classe, materie e situazioni nuove, senza un aiuto da parte di un mediatore di madrelingua, rischiano di bloccarsi e di non rendere nello studio e nei rapporti con i simili.

Ma anche i compagni italiani e gli insegnanti hanno bisogno di informazioni sulla cultura di provenienza del nuovo arrivato, per avere un approccio adeguato, se d’accordo?
Si. Assolutamente. Serve un lavoro strutturato per le scuole. Tutti gli insegnanti e gli studenti devono essere introdotti nella nuova situazione che si viene a creare con l’arrivo di un immigrato. Da noi alcune scuole si servono di mediatori, altre invece no. Considerano la mediazione un lavoro superfluo e quando non esistono fondi e il primo servizio che viene scartato.

Ci vuole una coscienza diversa da parte della politica. Penso che l’Europa stia mettendo le basi per una didattica transculturale. Si spera che in quest’ottica cambi l’approccio formativo nelle nostre scuole, rispetto all’utilizzo della figura del mediatore culturale. Ma, tornando a te, hai continuato per molto tempo a lavorare con gli stranieri?
Parallelamente alla mediazione culturale ho continuato a studiare. Nel 2003 mi sono iscritta e ho conseguito presso l’Università di Urbino, un corso triennale di Politiche internazionali. E poi, un corso di TFA per il sostegno. Questi diplomi mi hanno permesso di accedere, prima agli elenchi dei supplenti e poi alla piena abilitazione per l’insegnamento.

È stato un percorso lungo e dispendioso, ma alla fine sei soddisfatta di quello che sei riuscita a realizzare?
Non nascondo che ho passato, quello che si potrebbe chiamare un “calvario” ma sono veramente soddisfatta.
Sono entrata di ruolo dal 2019 a Urbino, dove ho insegnato per un po’ di tempo, in un Istituto tecnico. Lì mi sono trovata molto bene ma, siccome la mia famiglia risiede a Martinsicuro, dove ci siamo spostati nel frattempo, ho richiesto il trasferimento e oggi insegno all’IPSIA di San Benedetto del Tronto, fino all’acquisizione del trasferimento.
Mi piacerebbe continuare l’insegnamento in questa scuola anche perché potrei sfruttare la mia esperienza migratoria nonché la qualifica di mediatore culturale e aiutare i tanti ragazzi stranieri.

Professionalmente hai raggiunto il tuo scopo ma in quanto madre di due figli cosa sei riuscita a trasmettere, rispetto alla tua esperienza migratoria?
Intanto spero di avergli trasmesso l’amore per la cultura albanese. Loro devono sapere chi sono e conservare la ricchezza della nostra cultura anche se sono cresciuti in Italia fin da piccolissimi. Inoltre, ho tramandato una cosa importantissima a mio parere: mi riferisco, alla voglia di cercare il loro posto nel mondo. Di non sentirsi legati ad una terra, per forza, se tale terra non offre un futuro. Le ho trasmesso lo spirito di adattamento, tanto che sono finiti, dopo le lauree in materie umanistiche alla Sapienza di Roma, una in Francia e l’altro in Germania. In quei posti hanno trovato un impiego che li soddisfa e li rende felici.

Gli immigrati vengono spesso considerati persone deboli e sfortunate. Niente di più sbagliato. Le persone che lasciano il proprio paese per costruirsi un futuro altrove sono coloro che non si rassegnano ad una vita insoddisfacente. Per migliorare la propria vita riescono a tirar fuori una forza disumana, un forte spirito di adattamento e la disponibilità all’incontro con l’altro. Caratteristiche di grande pregio che anche Suzana ha dimostrato di possedere. Lei rappresenta quel tipo di donna, immigrata, che non si è lasciata intimidire dalle intemperie per raggiungere i suoi obiettivi. Tantomeno quando in passato, qualcuna delle colleghe le suggeriva per sbeffeggiarla, di non ambire a diventare un insegnante, lei “venuta con i gommoni”. Anzi, proprio in virtù di questi “scherni” ha continuato a studiare per riprendere in mano la propria vita. La vita che aveva sognato per sé stessa in Albania, tanti anni fa.

 

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