di Ana Fron
Viaggiare nel mondo è una delle cose più intriganti per noi esseri umani. Nati con l’istinto di “curiosare l’ignoto” ci muoviamo oltre le nostre terre natali ogni qual volta ne abbiamo l’opportunità. Solitamente si viaggia per conoscere nuovi paesaggi – naturali o antropici che siano – ma, lo si fa anche per altri motivi come: lavoro, cure mediche, sport, studio, religione, ecc.
Ma cosa serve per valicare i confini? Entrare e uscire nella moltitudine dei paesi?
Se volessi dare una risposta estremamente semplificata, direi, soldi ma, rischierei di risultare agli occhi del lettore una demagoga e allora mi accingo a descrivere l’intrecciato mondo dei permessi d’ingresso e di permanenza.
Si, perché, per entrare nella maggior parte dei paesi del mondo, come anche in Italia, ci vuole un visto che consente il soggiorno su tale territorio. A parte alcune eccezioni, gli interessati, hanno l’obbligo di presentare una domanda corredata da un certo numero di documenti, al Consolato o all’Ambasciata dello stato che intendono visitare.
Sono esenti dal visto i cittadini dei paesi appartenenti alla Convenzione Schengen, applicata nella Comunità Europea (22 stati più i paesi associati: la Norvegia, l’Islanda, la Svizzera e Liechtenstein).
La Comunità Europea politica (UE) tuttavia, non abbraccia tutti gli stati geograficamente in Europa, per questo motivo, cittadini albanesi, moldavi, macedoni, bosniaci, montenegrini, serbi, ucraini, insieme agli abitanti degli altri continenti, vengono considerati “extracomunitari” e vincolati all’ottenimento di un visto di ingresso.
A seconda della provenienza e della motivazione del viaggio serve una tipologia di documentazione per l’ottenimento di un certo tipo di ingresso. L’Italia possiede 21 tipi di visti, corrispondenti ad altrettanti motivi di ingresso. Parliamo precisamente di: adozione, affari, cure mediche, diplomatico, per motivi familiari, sport, invito, lavoro autonomo, lavoro subordinato, missione, motivi religiosi, reingresso, residenza elettiva, ricerca scientifica, studio, transito aeroportuale, transito, trasporto, turismo, vacanze lavoro, volontariato.
La maggior parte delle persone arriva in Italia per turismo e vacanza (a dimostrazione della sua bellezza e ricchezza storico culturale) ma, l’Italia è un paese economicamente sviluppato, dunque attrae anche migranti in cerca di lavoro.
Prima, negli anni ’90, i flussi di lavoratori giungevano dall’Est Europa e dai Balcani, oggi tali mobilitazioni si verificano dall’Asia e dall’Africa soprattutto; entrambe zone, con focolai di guerre, e di calamità naturali. Solitamente arriva uno o due membri di una famiglia per lavorare; in seguito, quando si hanno le condizioni giuste, si fa richiesta di ricongiungimento familiare. In questo caso l’ingresso è definito per motivi familiari. Tale diritto è tutelato da leggi come; l’art. 29 Costituzione, comma 1 dall’art. 28 del Testo Unico dell’Immigrazione, dalla legge 6 marzo 1998, n 40, art. 26.
Se nel principio la difesa dell’unione familiare è concreta, tuttavia nella forma legale e dunque nell’applicabilità, ci sono molti limiti. Il diritto al ricongiungimento familiare è riconosciuto al coniuge, ai figli minori, ai figli maggiorenni a carico, e ai genitori a carico, estromettendo dall’unione familiare i fratelli, i genitori e anche i figli maggiorenni autosufficienti; come se il bisogno dell’unione familiare vertesse solamente intorno ad un bisogno materiale e non anche a quello affettivo.
Ed è proprio la situazione per la quale attualmente lottano molti immigrati in Italia. A loro viene negata la possibilità di ricongiungersi con un figlio, un genitore, un fratello o una sorella, rimasti nel paese di origine; anche per un tempo determinato come nel caso di Omnia.
Omnia, una cittadina italo egiziana, residente a San Benedetto del Tronto da molti anni, ha in Egitto due fratelli che incontra saltuariamente, viaggiando lei avanti e indietro.
Oggi vorrebbe ricambiare l’ospitalità, invitando uno dei due fratelli a casa sua per un po’, così come ognuno di noi fa da sempre con i propri familiari, ma questa possibilità a lei viene negata. Per tre volte l’Ambasciata italiana al Cairo ha rifiutato il visto al fratello con motivazioni pretestuose: “Non è sicuro che lui lasci l’Italia a fine visto” oppure “Non ha dimostrato di avere sufficienti mezzi di sussistenza per mantenere il fratello in Italia”. La prima motivazione è un’accusa all’intenzionalità, in quanto non ci sono precedenti che dimostrino il rischio; la seconda motivazione invece è dovuta alla complessità della domanda, che è un problema in cui si incappa spesso quando c’è di mezzo la nostra burocrazia. Se Omnia avesse ricevuto in risposta dall’Ambasciata Italiana al Cairo l’indicazione in merito alla mancanza (es. la polizza è insufficiente, non è stato presentato quel documento, …), avrebbe subito sopperito e risolto il problema.
Ma Omnia non è l’unica impossibilitata a ospitare a casa sua un parente. L’elenco degli “sgraditi” è lungo tra gli immigrati residenti in Italia. Ci sono mamme che non possono portare in Italia addirittura dei figli, rimasti in Albania, in quanto sono autosufficienti e maggiorenni.
Con quali argomenti possiamo giustificare le misure restrittive delle autorità nel concedere i visti per motivi di famiglia?
Tutti noi conosciamo il valore della famiglia e il malessere che determina l’allontanamento forzato di uno dei componenti. Abbiamo tutti genitori, figli, fratelli e sorelle dai quali non vorremmo mai dividerci.
Usiamo ancora il pretesto “Siamo in troppi”?
No. Non siamo mai in troppi, quando si parla della famiglia; quando si tratta del suo benessere, che non può essere raggiunto senza l’unione di questa. La famiglia costituisce il “nucleo della società” e nella società oggi ci sono anche gli immigrati che hanno e rivendicano gli stessi diritti dei locali. Se questa società vuole essere ugualitaria e giusta, allora bisogna cambiare anche la prospettiva legale.
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