M.Michela Nicolais
“Sono stato nel cuore dell’Asia e mi ha fatto bene. Fa bene entrare in dialogo con quel grande continente, coglierne i messaggi, conoscerne la sapienza, il modo di guardare le cose, di abbracciare il tempo e lo spazio”. E’ il bilancio del suo recente viaggio apostolico in Mongolia, di cui Papa Francesco, durante l’udienza di oggi in piazza San Pietro, ha ripercorso le tappe. Durante i saluti ai fedeli di lingua italiana, l’affidamento a Maria della “cara e martoriata popolazione Ucraina”.
“Ho avuto la grazia di incontrare in Mongolia una Chiesa umile e lieta, che è nel cuore di Dio, e posso testimoniarvi la loro gioia nel trovarsi per alcuni giorni anche al centro della Chiesa”,
il ritratto del popolo mongolo, definito “un popolo nobile e saggio, che mi ha dimostrato tanta cordialità e affetto”. “E’ lontano dai riflettori, che spesso si trovano i segni della presenza di Dio”, ha spiegato il Papa a proposito del piccolo gregge di 1.400 fedeli in un Paese grande cinque volte l’Italia: “Il Signore non cerca il centro del palcoscenico, ma il cuore semplice di chi lo desidera e lo ama senza apparire, senza voler svettare sugli altri”. La cattolicità è “un’universalità incarnata, inculturata, che coglie il bene lì dove vive e serve la gente con cui vive”, ha ribadito Francesco a proposito della testimonianza di fede esemplare della Mongolia, nata grazie all’opera di “alcuni missionari che, appassionati del Vangelo, circa trent’anni fa sono andati in quel Paese che non conoscevano”: “Ne hanno imparato la lingua, che non è facile, e pur venendo da nazioni diverse, hanno dato vita a una comunità unita e veramente cattolica. Questo infatti è il senso della parola cattolico, che significa universale. Ma non si tratta di un’universalità che omologa, bensì di un’universalità che s’incultura”. I missionari, infatti,
“non sono andati a fare proselitismo, questo non è Vangelo”,
ha precisato a braccio Francesco: “Sono andati a vivere come il popolo mongolo, a parlare la lingua di quella gente, a prendere i valori di quel popolo e a predicare il Vangelo con stile mongolo. Sono andati e si sono inculturati: hanno preso la cultura mongola per poter inculturare in quella cultura il Vangelo”.
“Essere casa della misericordia:
luogo aperto, luogo accogliente, dove le miserie di ciascuno possano entrare senza vergogna a contatto con la misericordia di Dio che rialza e risana”, la consegna sulla scorta di quanto ha potuto personalmente toccare con mano nei giorni scorsi.
“Alla gente, anche a noi, piace lo scandalo”,
ha aggiunto il Papa a braccio, e invece “è decisivo saper scorgere e riconoscere il bene. È importante, come fa il popolo mongolo, orientare lo sguardo verso l’alto, verso la luce del bene. Solo in questo modo, a partire dal riconoscimento del bene, lo si aiuta a migliorare”. “Pensiamo a quanti semi di bene, nel nascondimento, fanno germogliare il giardino del mondo, mentre abitualmente sentiamo parlare solo del rumore degli alberi che cadono!”, il monito di Francesco. “Mi ha fatto bene incontrare il popolo mongolo, che custodisce le radici e le tradizioni, rispetta gli anziani e vive in armonia con l’ambiente”, ha assicurato il Papa: “è un popolo che scruta il cielo e sente il respiro del creato. Pensando alle distese sconfinate e silenziose della Mongolia, lasciamoci stimolare dal bisogno di allargare i confini del nostro sguardo”.
“Per favore, allargate i confini!”,
l’appello finale a braccio: “Guardare largo e non cadere prigionieri delle piccolezze: allargare i confini del nostro sguardo, perché veda il bene che c’è negli altri e sia capace di dilatare i propri orizzonti. E anche dilatare il proprio cuore: dilatare il cuore per capire, per essere vicino a ogni persona e a ogni civiltà”.
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