Di Ilaria De Bonis
Attraversato da due fiume possenti, lo Zambesi e il Limpopo, e dalle cascate Vittoria, ricco di parchi e foreste tropicali, patria di antilopi, bufali ed elefanti, lo Zimbabwe (ex Rodesia) è uno degli ultimi paradisi africani. “Potremmo benissimo dirci un Paese sviluppato se riuscissimo ad usare i giacimenti di platino, oro, cromo, diamanti per creare ricchezza interna. Lo Zimbabwe è la mia patria, ci sono nata, penso sia di una bellezza straordinaria! Però ancora combattiamo la malaria, l’Aids e la malnutrizione infantile”. A raccontarcelo è Julia Musariri, missionaria laica, medico chirurgo che ha studiato all’Università di Tor Vergata, direttrice sanitaria del St. Albert’s Mission Hospital di Centenary. “Il nostro è un ospedale sia pubblico che privato, ma alla gente più povera non costa nulla: grazie alle sovvenzioni governative compriamo le medicine; grazie ai missionari facciamo tutto il resto”, spiega Musariri.
Paese “verde” ma poco cibo. Julia fa parte di una comunità di vita apostolica al servizio della Chiesa missionaria: l’Associazione sanitaria internazionale. Musariri è stata in origine membro dell’“Associazione femminile medico missionaria”, tutta al femminile e tutta dedita alla promozione della donna. “Il reparto maternità è sempre pieno qui: centinaia di nascite e di mamme incinte che arrivano con i figli piccoli e vengono a chiederci anche cibo. Noi facciamo delle donazioni, distribuiamo alimenti energetici”. Come è possibile avere bisogno di cibo nel Paese più verde del Continente africano meridionale? Cosa non funziona nella catena produttiva? Attorno al villaggio di Centenary, dove sorge l’ospedale St Halbert, a 1.500 metri sul livello del mare dominano bananeti e campi di cipolle. La gente vive di agricoltura e di piccolo commercio: “durante la stagione delle piogge – spiega Julia – si coltiva la terra, e in quella secca si va al mercato a portare i pomodori e le cipolle, ma la stagione umida tende ad accorciarsi”.
Clima, malattie, povertà… I cambiamenti climatici colpiscono anche qui e i paradossi diventano la norma: da una parte la rainy season è sempre meno piovosa, dall’altra si rischiano le alluvioni. Un presidio sanitario sostanzialmente gratuito, in mezzo alla campagna e alla savana, accessibile dai villaggi limitrofi e in grado di curare Hiv e Aids, è il più prezioso dei diamanti. E non ha eguali. Un tempo lo Zimbabwe inglese, dove nel 1946 venne istituito l’apartheid, come nel vicino Sudafrica, “era famoso per le piantagioni di tabacco. Oggi si vive di agricoltura famigliare e spesso la gente ha fame”, spiega la dottoressa. Se i contadini non riescono a produrre abbastanza, oppure non rivendono tutto quello che hanno raccolto, non c’è da mangiare. E la missione è l’unico faro.
Vite da salvare. Politicamente in questo momento lo Zimbabwe è in trappola: Emmerson Mnangagwa, 80 anni, detto il coccodrillo, ex pupillo di Mugabe, è stato rieletto per un secondo mandato. Ma il risultato è contestato. La gestione autoritaria del potere in questi anni non è piaciuta alle opposizioni. E neanche il colpo di Stato soft che nel 2017 vide il coccodrillo deporre Mugabe e prendersi tutta la scena. D’altra parte lo Zimbabwe è oramai avvezzo alle lotte intestine per la “successione” al trono, nonostante il voto. “Noi qui in ospedale non seguiamo la politica e neanche ci interessa – ammette la dottoressa Musariri –; abbiamo altre urgenze a cui pensare e vite da salvare”. Eppure è proprio la good governance che può fare la differenza, tra spesa pubblica potenziata e redistribuzione delle risorse interne.
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