(Foto ANSA/SIR)

Francesco Patton, Custode di Terra Santa

Il mese di novembre si apre con la solennità di tutti i santi e viene tradizionalmente chiamato “il mese dei defunti” perché per antica tradizione il secondo giorno del mese si commemorano i fedeli defunti. In realtà la prassi che si è creata, in Italia ma anche in altri paesi, ormai da molti anni mette insieme le due celebrazioni collocando preferibilmente la celebrazione eucaristica di tutti i Santi al cimitero. Indipendentemente da tutte le considerazioni di tipo pastorale e liturgico rimane chiaro che è la solennità di tutti i santi a dare un senso anche alla commemorazione dei fedeli defunti. È la prospettiva pasquale della vita a dare un senso sia al nostro vivere sia al nostro morire. E ciò che ci aspetta in questa prospettiva non è la scomparsa nel grande nulla, ma è la comunione con Dio, la piena partecipazione alla sua vita, in modo definitivo. I santi sono coloro che hanno già raggiunto questa meta e ci incoraggiano a vivere uniti a Cristo nel pellegrinaggio terreno per poter essere uniti a Lui anche nella Gerusalemme del Cielo.Nutrirsi della Parola. Prima dell’editto Napoleonico del 1804 la sepoltura avveniva nelle chiese stesse, sotto il pavimento del presbiterio venivano sepolti sacerdoti e religiosi, sotto il pavimento dell’aula venivano sepolti i fedeli laici. Le pareti della chiesa venivano decorate con racconti biblici e spesso con vite dei santi. Nel catino absidale si poteva contemplare il Cristo trionfante o la Madonna assunta al cielo e incoronata, quasi a indicare la meta e il senso del pellegrinaggio terreno. Sulla parete opposta all’abside veniva invece spesso dipinto il giudizio universale per sollecitare la responsabilità personale necessaria nella vita di tutti i giorni. Dentro l’aula della chiesa (allora come oggi) si ritrovava la comunità a celebrare i sacramenti e i momenti fondamentali della vita, dalla nascita fino alla morte. Si celebrava e si celebra soprattutto l’Eucaristia, occasione speciale per nutrirsi della parola di Dio e del corpo di Cristo, che fa sì che le persone che compongono la Chiesa diventino un solo corpo in Cristo e rende capaci di vivere con gli stessi sentimenti e atteggiamenti che furono di Cristo Gesù, perché nutrirsi della parola e del corpo di Cristo ci trasforma in lui.

Nutrirsi di Cristo. Anche se poco igienica, quella prassi dava un’immagine bellissima della Chiesa: un popolo fatto di persone che vivono dentro questa storia concreta e si nutrono del Cristo per essere trasformati in Lui; un popolo di persone che sanno di dover prima o poi fare quel passaggio che si chiama morte, consapevoli che ogni credente è chiamato a farlo nella luce della Pasqua di Gesù; un popolo di persone che sanno che la meta della loro vita è la partecipazione alla vita stessa di Dio nella comunione dei santi e che per questo si nutrono della parola e del corpo di Cristo e liberamente scelgono di vivere secondo lo spirito profetico e anticonvenzionale delle beatitudini.

Gaza, la preghiera per la pace (Foto Parrocchia latina)

Una voce da Gaza. Sembrano cose teoriche e del passato, ma proprio ciò che sta accadendo in questi giorni in Terra Santa ce ne ripropone l’attualità, attraverso le parole di un giovane della Parrocchia cattolica di Gaza, che mentre attorno infuriano i bombardamenti, così scrive via WhatsApp: “Buon giorno mondo, ti ricordi ancora di me? Sono Suhail Abodawood, di Gaza. In questo momento la mia Chiesa è il mio rifugio, perché la salvezza e la sicurezza sono unicamente con Gesù Cristo. Io continuo a pregare sempre il Rosario, lo faccio come offerta e per chiedere al mio Signore pace per la nostra Chiesa e per la nostra Città.

Io confido solo in Dio e metto la mia vita nelle mani del Signore: Egli è il mio unico Salvatore e io prego di poter partecipare alla sua gloriosa salvezza. Io sto ora affrontando difficoltà veramente dure e la situazione è davvero pericolosa. Negli ultimi giorni ho dormito in chiesa, è il posto più sicuro in questo momento. Partecipiamo alla Santa Messa due volte al giorno e preghiamo la beata Maria che ci ottenga più fede per poter gestire in modo adeguato la nostra condizione.

La fede è più forte della guerra.

Ogni giorno noi perdiamo qualcosa che ci appartiene, case e persone. Noi stiamo pregando dal profondo dei nostri cuori e chiedendo a Dio che ci doni pace e giustizia nella nostra Terra Santa. Il 25 ottobre ho ricevuto un messaggio prima dell’inizio della Messa, che la mia casa era stata bombardata e distrutta. All’inizio mi sono sentito davvero triste e contrariato, ma poi mi sono reso conto che le nostre vite sono più importanti di ogni cosa materiale. Nella Messa ho poi pregato in modo particolarmente intenso il nostro Signore Gesù Cristo e gli ho chiesto di donarmi più fortezza e più fede per poter affrontare il mio sconforto.

A dispetto di tutto, io considero e credo che la Santa Chiesa è la mia prima e ultima casa.

È diventata la mia vera casa, dopo che quella che avevo è stata distrutta. La Chiesa resterà sempre la mia casa e Gesù Cristo resterà sempre nel mio cuore in qualsiasi posto io vada. Noi continueremo a pregare, a digiunare e a rendere grazie a Dio per tutto ciò che Lui ci ha donato, per tutto il tempo che saremo vivi. Noi sacrificheremo noi stessi per Gesù come Lui ha sacrificato se stesso per noi”.

“La speranza e la determinazione sono più forti di ogni guerra nella nostra Terra Santa”.

Io non so se in questo momento il giovane Suhail Abodawood sia ancora vivo o sia rimasto anche lui ucciso sotto i bombardamenti. Di una cosa sono certo, nella sua giovinezza ha compreso cosa significa vivere questa vita nella comunione con Cristo e nella comunione dei Santi. Che lo Spirito del Signore tenga vive anche in noi le lampade della fede, della speranza e della carità, per continuare a vivere anche le ore buie della vita e della storia alla luce della passione, morte e risurrezione di Gesù, percorso anche per noi necessario per giungere nella comunione dei Santi.

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