Daniele Rocchi
“L’alba a Gaza arriva prima che altrove” perché, dicono gli sfollati cristiani nella parrocchia latina della Sacra Famiglia, “qui non scende mai il buio della notte. Il frastuono e i bagliori delle bombe e dei proiettili, il sibilo dei razzi, i fuochi delle esplosioni, infatti, illuminano ogni momento della notte, fanno paura e ci non ci danno un attimo di tregua”.
Nonostante ciò materassi, cuscini e coperte, al mattino, vengono ordinatamente risistemati lungo le pareti della piccola chiesa, nell’abside della quale campeggia una grande immagine della Sacra Famiglia. Il compound parrocchiale ospita oltre 700 sfollati cristiani e la vita al suo interno non è semplice. Dal 7 ottobre, quando è scoppiata “questa maledetta guerra – dice al Sir suor Nabila Saleh – quasi tutti i cristiani di Gaza, poco più di 1.000 persone, hanno avuto la casa danneggiata o distrutta e oggi hanno solo la parrocchia dove poter stare e vivere con un minimo di dignità”.
Sono tanti i fedeli che hanno scelto di dormire dentro la chiesa perché, spiega la religiosa della congregazione delle Suore del Rosario di Gerusalemme, “hanno paura di trascorrere la notte nelle strutture parrocchiali contigue alle strade e quindi più esposte alle bombe.Se dobbiamo morire preferiamo farlo stando il più vicino possibile a Gesù, vicino all’altare. Da qui non ce ne andiamo, questa è la nostra casa e qui rimaniamo”.Il passaggio dal materasso al banco della chiesa per i tanti bambini che affollano la parrocchia è diventato quasi un gioco. Molti restano in pigiama per partecipare alla messa, poi un po’ di colazione e via di corsa a giocare, in cortile se le condizioni di sicurezza lo permettono, o in qualche sala interna. “Cerchiamo di animare la loro giornata – racconta madre Maria del Pilar, dell’Istituto del Verbo Incarnato (Ive), missionaria a Gaza – di regalare scampoli di normalità e magari anche suscitare un sorriso.Papa Francesco nelle sue telefonate quotidiane ci dice sempre di custodire e proteggere i più piccoli”.
La storia di Elì. Piccoli come Elì. La sua storia è quella di tanti bambini della Striscia, sottolinea suor Nabila: “Elì era con la sua famiglia nel centro culturale ortodosso bombardato da Israele. È stato tratto in salvo dalle macerie e adesso vive qui in parrocchia con i genitori e i fratelli. Ogni volta che sente gli aerei e le bombe si porta le mani sulla testa e urla:
‘Adesso moriamo, adesso moriamo’.
Allora si rifugia in chiesa e per tranquillizzarsi comincia a recitare il rosario”.
Morti innocenti. Le giornate trascorrono lente mentre le notizie di ciò che accade all’esterno si rincorrono senza sosta suscitando ancora più timori per il futuro. Donne e uomini si danno da fare per preparare i pasti, per tenere puliti e in ordine gli ambienti di vita comune, per mantenere efficiente la macchina della solidarietà che non lascia indietro nessuno. Acqua, cibo, carburante sono attentamente razionati. Acquistarli, infatti, vuole dire un enorme esborso di denaro. “Alcuni prodotti ormai si trovano solo al mercato nero e a prezzi triplicati. Ma la Provvidenza non ci ha mai abbandonato”, afferma suor Nabila. Chi può cerca di aiutare le suore della carità di Madre Teresa che accudiscono alcune decine di bambini disabili gravi e di anziani allettati. Quando c’è energia elettrica si mettono in carica gli smartphone. Ma spesso ciò che manca, dicono dalla parrocchia, è “la connessione internet. L’esercito di Israele oscura le comunicazioni ed è impossibile parlare con amici e familiari. Sapere come stanno e dove si trovano è importante per mantenere i legami tra di noi, soprattutto adesso che metà della popolazione è stata costretta da Israele a evacuare verso sud dove però ci sono sempre scontri. Solo pochi giorni fa – ricorda suor Nabila – l’esercito israeliano ha diffuso dei volantini in alcuni villaggi dell’area di Khan Younis dove si sono rifugiate migliaia di persone in fuga dal nord per ordinare una nuova evacuazione. Prima sono stati costretti a lasciare le loro case a nord per venire a sud, ora devono lasciare il sud per andare dove?A Gaza nessun posto è sicuro. Questo non è umano. Mi chiedo dove siano finiti tutti quei governi, specialmente europei, che si dicono difensori dei diritti umani.Nessuno dice nulla, nessuno parla di questa ingiustizia! E la gente innocente muore. Qui manca tutto, cibo, acqua, medicine. Nei negozi rimasti aperti la merce scarseggia. Quanto potremo resistere? Siamo stanchi.
Ogni giorno a Gaza si muore di paura e per le armi”.
Tra due fuochi. Intanto “dal compound non esce praticamente nessuno poiché è molto pericoloso – dice George Anton, direttore amministrativo di Caritas Jerusalem a Gaza –. Usciamo solo per esigenze improrogabili, come visite mediche particolari o per trovare cibo, medicine, acqua di cui abbiamo effettivo bisogno”. E ribadisce:“Nonostante ci manchi tutto, nonostante le notti orribili e insonni, i giorni devastanti che stiamo vivendo, siamo rimasti, non ce ne siamo andati e non lo faremo. Anche a costo della vita”.Nei giorni scorsi una anziana donna cristiana, Elham Farah, è stata uccisa poco dopo essere uscita dalla parrocchia: “Aveva 84 anni ed era una insegnante di musica in pensione – dicono fonti locali riportando al Sir le parole dei parenti della donna –, è stata colpita da cecchini alle gambe finendo sotto un carro armato israeliano. Per diversi giorni è stato impossibile recuperarne il corpo che alla fine è stato portato all’ospedale al-Shifa e sepolto insieme ad altri cadaveri. Non siamo riusciti a riportarla in parrocchia per darle una degna sepoltura. La sua unica colpa è stata quella di voler tornare nella sua abitazione distrutta per poter recuperare qualche oggetto a lei caro. Tutte le strade di Gaza sono piene di cadaveri”. “La situazione peggiora di ora in ora – aggiunge suor Nabila – i carri armati israeliani sono nella nostra zona, stazionano davanti all’ospedale battista al-Ahli. Ieri pomeriggio è stata bombardata una casa, proprio di fronte alla parrocchia, e tre persone sono rimaste ferite. Ci troviamo in mezzo a due fuochi. Nessuno sa cosa può davvero accadere da un momento all’altro”.
Appuntamento con la speranza. Così il grande portone carrabile della parrocchia è praticamente sempre chiuso mentre “sempre aperto” è quello della chiesa perché la gente possa accorrere quando sente i bombardamenti. La vita all’interno della parrocchia è scandita dalla preghiera, due messe, una al mattino e una alla sera, nel pomeriggio la recita del rosario. L’intenzione è sempre e solo una: “Perché la guerra finisca”.
“L’unica arma che abbiamo per difenderci è la preghiera che ci dona la luce per guardare avanti con fiducia”
– spiega suor Nabila –. La fede ci aiuta a resistere tra le macerie di questa guerra che è molto diversa da quelle precedenti. Mai così tanti morti, mai così tanta distruzione. Gaza è stata cancellata per metà. Migliaia di innocenti hanno perso la vita e non è ancora finita. Questa non è giustizia. Il popolo di Gaza non vuole la guerra ma la pace. Solo Papa Francesco ascolta il nostro grido. Ci telefona ogni giorno e per tutti noi della parrocchia questa chiamata è un appuntamento con la speranza”.
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