Il 2023 è stato un anno molto doloroso, ognuno può decidere se più o meno dei precedenti. Non credo valga la pena stilare una lista di tutto quel che è accaduto di brutto, e poi sarebbe un compito al di là delle mie capacità, anche perché purtroppo faccio presto a dimenticare. Però non dimentico le parole che qui a Padova, la mia città, Gino Cecchettin ha pronunciato al funerale di sua figlia Giulia: “Io non so pregare, ma so sperare. Voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace”.
Pregare e sperare: si direbbero due verbi adatti a persone impotenti, ma non è forse vero che siamo impotenti rispetto a tutto il male del mondo e molto spesso anche solo rispetto a quello che ci coinvolge personalmente?
Eppure pregare e sperare sono due verbi ineludibili per la vita cristiana.
La speranza di cui parla il Nuovo Testamento non è, come nel linguaggio di oggi, il desiderio di qualcosa di desiderabile ma incerto, o magari addirittura improbabile, come vincere la lotteria. In spagnolo esperar significa aspettare e così pure nell’antichità la parola speranza significava semplicemente attesa: attesa di qualcosa di positivo o negativo, ma sicuro. La speranza cristiana è l’attesa che si compia ciò che il Signore Gesù ha promesso e che quindi avverrà: il suo ritorno, una nuova creazione, la vita eterna.
Pregare è, tra l’altro, riaccendere questa attesa; mettersi davanti a Dio – non per ricordargli le sue promesse, ma per ricordarle noi – in ginocchio, perché quei beni che aspettiamo non sono in alcun modo meritati né dovuti, ma ne abbiamo tanto bisogno. Tutto il dolore del mondo, specialmente quello innocente, ma anche quello meno innocente, grida verso Dio e chiede che si compia la sua volontà e venga finalmente il suo regno.
Tuttavia la speranza e la preghiera non spingono i credenti verso il fatalismo, la rassegnazione e l’inazione: Gesù ci ha chiesto di vegliare e operare in attesa della sua venuta. Anche perché prima ci saranno guerre e rivoluzioni, terremoti, carestie e pestilenze “ma non sarà subito la fine” (cf. Lc 21,9-11). Innegabile: tutte queste cose accadono da duemila anni e la fine non è ancora arrivata. Però tutto questo “vi darà occasione di render testimonianza” (Lc 21,13), persecuzione compresa, molto diffusa nel mondo e in crescita anche in Europa.
Profeti di sventura, apocalittici e sedicenti veggenti che annunciano la fine prossima ventura si sono moltiplicati negli ultimi anni. Anche questo era già scritto: “Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: ‘Sono io’ e: ‘Il tempo è prossimo’; non seguiteli” (Lc 21,8). Invece hanno molto seguito perché fanno leva sulla paura e promettono una salvezza molto terra-terra: la sopravvivenza, la salute del corpo, il buon esito delle proprie iniziative. Ma è davvero tutto qui, quel che possiamo sperare?
Come tutto il resto dell’umanità, possiamo sperare che il nuovo anno sia migliore e che vada tutto bene, o almeno meglio dell’anno trascorso, ma già Leopardi nel suo celebre “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero” aveva evidenziato la vacuità di questo genere di speranza. Davvero vogliamo accontentarci di questo “Spero, anche se in fondo non ci credo”?
L’altra possibilità, scartando il pessimismo e la disperazione, è sperare come cristiani, vale a dire attendere in modo vigile e operoso che si compiano le promesse del Signore Gesù, non solo alla fine dei tempi, ma anche nella vita quotidiana, cogliendo le occasioni per dare testimonianza. Che non mancheranno, questo è sicuro.
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