Di Alessandro Di Medio
Il tempo di Quaresima è uno dei più caratterizzanti l’esperienza cristiana, in quanto sin dall’origine è il tempo che prepara al Battesimo o aiuta a tornarvi annualmente con la pratica della penitenza, e volge oggi al termine: si conclude per l’esattezza dopo la celebrazione dell’Ora Nona, cioè dopo le tre del pomeriggio, e con l’avvento della sera cede il passo al primo dei tre grandi Giorni da cui tutta la realtà è stata irrevocabilmente mutata in un passaggio (“pesach”) ad Altro, a un Altro.
In questo incedere del tempo, che come sempre nella liturgia è associato al mutare dei colori, in una progressiva sublimazione dal viola al rosso fino al bianco fulgido della Pasqua, si presenta un’interessante anomalia: l’ultimo pezzetto della Quaresima, ovvero la mattina del Giovedì Santo, si tinge di bianco per noi preti, nella celebrazione della Messa Crismale, in cui una volta tanto ci attestiamo visibilmente come corpo, collegio – fratelli.
Non voglio entrare nella questione strettamente liturgica, ma vorrei avvalermi di questa suggestione cromatica per una riflessione su noi preti in questa mattinata così particolare, alla quale arriviamo non di rado macinati come le olive nel torchio dalle mille attività della Quaresima trascorsa.
Abbiamo predicato, confessato, radunato, catechizzato; abbiamo girato come trottole per le case, salutando, aspergendo, benedicendo, confortando, sopportando insulti (e forse constatando che sempre meno porte si aprono al nostro arrivo); forse forse, siamo anche riusciti a ritagliarci uno spazietto per la nostra, di conversione personale. Fatto sta che, trafelati e trepidanti per l’ulteriore tuffo che ci aspetta nella congerie di celebrazioni del Triduo, in questa mattinata ci fermiamo un attimo, ci stacchiamo da parrocchie e comunità, e ci permettiamo di tornare al senso originario del nostro essere preti. Sbagliano quelli di noi che per pretesti operativi alla Crismale non ci vanno (ammettiamolo, è che non gli va, perché la gente in realtà capirebbe benissimo): almeno una volta all’anno dobbiamo ricordare a noi stessi che l’essere-con è più importante del fare. E questo è un prete, nient’altro che un “essere-con”: collaboratore, emanazione, del ministero del Vescovo, principio di unità della comunità, avviatore di processi, lievito nella pasta.
Questo ci ricordiamo di essere il Giovedì mattina, radunati tutti insieme, così simili a colpo d’occhio nella massa candida dei camici e delle stole, così diversi visti da vicino per lineamenti, stile dei parati, provenienze, età, ecc. Unità nella diversità di fisici e di vedute, molteplicità di caratteri e di sensibilità riunite nell’unico sacerdozio, nell’unico Sacerdote, come l’unico olio che cola aureo dalla molteplicità delle piccole singole olive torchiate insieme. Da una singola oliva non si otterrebbe nulla, come nulla uscirebbe se le olive non fossero docili alla torchiatura – ecco perché nella Messa che benedice gli Oli rinnoviamo anche quelle promesse che formulammo all’inizio del ministero, con le quali accettammo di farci “torchiare”, ovvero di perdere la forma di individui autocentrati per diventare nutrimento, linimento, farmaco. Ma tutto questo è in un clima di festa, non di mestizia, di bianco, non di viola: Pasqua anticipata per noi preti, che dalla gioia di avere imparato a dare la vita per riceverla rinnovata possiamo insegnarlo testimoniandolo ai fratelli e alle sorelle che di lì a poche ore incontreremo, quando laveremo loro i piedi e spezzeremo per loro quel Pane, segno di Colui che fu il primo a dare l’esempio che solo quando si accetta di perdersi, di consegnarsi, di farsi mangiare, allora si fiorisce in una Vita imperitura.
Auguri a tutti i miei cari fratelli sacerdoti!
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