Intervista di Marco Sprecacè al Vicedirettore della Caritas Fernando Palestini
Di Patrizia Caiffa
(da Grado) – Il confine come luogo simbolico positivo, che evoca incontro e convivenza pacifica anziché scontro, conflitto e divisione. Non è un caso se per rappresentare concretamente questo ideale sia stata scelta Grado, nella diocesi di Gorizia, come sede del 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, centrato proprio sul tema “Confini, zone di contatto e non di separazione”.
Per la diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto sono presenti: Don Gianni Croci, Fernando Palestini, Nedo Tiburtini e Marco Sprecacè.
L’evento annuale, che quest’anno riunisce 600 delegati rappresentanti di 218 Caritas diocesane, si è aperto l’8 aprile, e si concluderà l’11 aprile.
Sullo sfondo la laguna e il mare calmo di Grado e il fatto che Gorizia e Nova Gorica, le due città contigue in Italia e Slovenia, sono state scelte entrambe come Capitale europea della cultura 2025: proprio perché rappresentano un territorio transfrontaliero dove l’incontro e lo scambio sono vissuti realmente e quotidianamente. Nella piazza Transalpina di Gorizia sarà celebrata oggi pomeriggio una preghiera per la pace con testimonianze significative e una celebrazione eucaristica nella chiesa del Sacro Cuore.
I confini positivi. “Passeremo un confine, ormai superato dalla storia e che non c’è mai stato fino al Novecento, che divide le due città Gorizia e Nova Gorica, due realtà che l’anno prossimo saranno insieme capitale europea della cultura. Un evento che per il solo fatto di essere stato pensato come possibile è già per noi una grazia. Comprendete quindi che parlare di confini come zone di contatto e non di separazione per noi che abitiamo e viviamo qui non è una questione di principio o di studio, ma è qualcosa che tocca la nostra carne, il nostro cuore e la nostra mente. È per noi un tema necessario”, ha affermato nella sua introduzione monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas italiana: “Se non ci fossero i confini saremmo tutti più poveri, privi di punti di vista diversi. I confini sono anche positivi, perché garantiscono una diversità e un approccio complesso al mondo “. A livello ecclesiale, ha proseguito il presidente di Caritas italiana, “dobbiamo riconoscere che a volte ci sono confini tra uffici e servizi della curia con il rischio di una pastorale frammentata e iniziative non coordinate che piovono sulle parrocchie. Ci sono però tentativi interessanti di lavoro condiviso”. Ma il confine più arduo è “tra operatori e volontari Caritas e gli ultimi, perché siamo in due situazioni diverse, chi aiuta e chi ha bisogno di aiuto. Ma è un confine che va superato”. Il suo suggerimento è
capovolgere i ruoli ossia “pensandoci noi come gli affamati, gli assetati, gli stranieri che hanno bisogno di aiuto”.
“Le due vie: la giustizia e la carità”. “La Chiesa è immersa in una dinamica d’amore concreto e senza confini”, ha detto invece monsignor Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia e presidente della Conferenza Episcopale Triveneto: “E nella nostra società è chiamata sempre più a mostrare e indicare che c’è sì la giustizia ma c’è anche la carità – le due dimensioni non vanno confuse ma vanno tenute insieme – e che la vita dell’uomo non può essere ridotta ad una concezione materialista o spiritualista che, di fatto, porterebbero a ridimensionare o umiliare la dignità dell’uomo stesso”.
“La nuova frontiera (ma è vecchia) è il controllo delle menti e dei comportamenti”. “Cosa succede se con le vecchie forme di abuso di potere e con quelle nuove nel territorio di internet e dell’intelligenza artificiale veniamo privati di dati personali, profilati, manipolati, replicati senza permesso?”, si è chiesto poi padre Luciano Larivera, gesuita e direttore del Centro culturale Veritas di Trieste, in una lunga disamina sui confini e le frontiere reali e virtuali: “La nuova frontiera (ma è vecchia) è il controllo delle menti e dei comportamenti, spesso disinformando, nel senso di non dare le informazioni e le conoscenze rilevanti, e non tanto con fake news; e pure inondando di stimoli soprattutto visivi, che emozionano, eccitano ma disabilitano il pensiero critico. Quante dipendenze verranno indotte e rafforzate con i nuovi consumi di massa, con lo smarrimento dei confini personali”. Tra quelli che ha definito “territori di sconfinamento” su cui interrogarsi padre Larivera ha indicato “il biopotere degli Stati (e di alcuni privati): fino a dove si può estendere il potere sulla vita umana? Fin dove obbligare a vaccini o trattamenti sanitari salvavita? Si sdoganerà ovunque il suicidio assistito, l’eutanasia, la maternità surrogata? Quale sarà la frontiera delle nuove sostanze psicotrope? Qual è il soft border etico e legale per la sperimentazione sugli embrioni umani, sul Dna dei nascituri? Intelligenza artificiale e robotica saranno usate per sviluppare nuovi patrimoni genetici e cyborg cioè nuove specie di uomini e donne? Magari per combattere nuove guerre o colonizzare Marte.
Ma questa è vera evoluzione umana?”
“Confidare anziché confinare”. “Invece che ‘confinare’ (chiudere l’altro dove lui è e chiudere me dove io sono) un buon metodo è ‘confidare’, cioè rinchiudere nell’altro qualcosa di mio (un segreto, un dono, una presenza che parla), per cui il problema non sono i confini, ma ciò che si muove tra i confini. Confidare è già uscire da un confine”, ha suggerito don Matteo Pasinato, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Vicenza. “Dal ‘limite’ umano non ci toglierà nemmeno l’intelligenza artificiale – ha osservato -. E dunque teniamo caro il nostro ‘limite’, onoriamolo, onorando il fatto che non siamo una macchina”.
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