Giovanna Pasqualin Traversa
“Di fronte all’altro. Sposi e presbiteri, insieme discepoli missionari” è stato il tema della XXV edizione della Settimana nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare che si è svolta dal 25 al 28 aprile ad Altavilla Milicia (Palermo) per iniziativa dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Cei. Un appuntamento ricco di interventi, provocazioni e spunti di riflessione. Con il responsabile dell’Ufficio, p. Marco Vianelli, stiliamo un bilancio a caldo dell’iniziativa, tra sfide e prospettive di lavoro.
Padre Vianelli, l’appuntamento si proponeva di esplorare e ridefinire ruoli e relazione tra preti e coppie di sposi all’interno della comune missione dell’annuncio e del servizio. Che cosa è emerso?
Non partiamo da zero: questa esplorazione ha preso il via l’anno scorso a Montesilvano quando abbiamo tentato di tracciare i contorni di questa relazione per inquadrarla da un punto di vista ecclesiologico. Don Dario Vitali ci aveva aiutato a riappropriarci dell’ecclesiologia del Vaticano II e in quel contesto avevamo provato ad esplorare la specificità dei sacramenti dell’ordine e del matrimonio con un affondo su aspetti come l’ascolto, la risposta al mondo, l’abitare.
A Palermo abbiamo invece tentato di “riappropriarci” di un lessico familiare che potesse diventare un lessico ecclesiale, ossia di come le parole che definiscono e raccontano le relazioni all’interno della famiglia possano ispirare un nuovo stile di relazioni all’interno della Chiesa.
Don Vito Impellizzeri ci ha proposto l’esperienza “gesuana”, come l’ha definita, ossia di come Gesù abbia strutturato la propria comunità partendo dalla sua esperienza all’interno della famiglia di Nazareth. Simona Segoloni ci ha invece aiutato a cogliere la differenza tra ministeri, carismi e vocazioni, ponendo l’accento sulla ministerialità come qualcosa che serve per dare vita all’altro e al mondo nei diversi contesti: relazioni, lavoro, scuola, impegno sociale e civile. Con Gaia De Vecchi ci siamo inoltrati in una rilettura del dialogo maschile-femminile nell’ottica dell’intimità, un’intimità tra gli sposi e con il Signore che si alimentano a vicenda. Infine, con Alessandra Turrisi abbiamo toccato con mano come coppie come i Dalla Chiesa o i Falcone, ma anche figure come Rosario Livatino o don Pino Puglisi, abbiano vissuto in Sicilia la sfida alla mafia e all’omertà, e l’impegno per la verità e la giustizia fino a sacrificare la propria vita.
La ministerialità degli sposi come si può tradurre nella pastorale ordinaria delle parrocchie?
Se la ministerialità si configura come un servizio di cura per la vita dell’altro, questo non può rimanere ad intra, ma partendo dalla famiglia deve superare i confini della parrocchia ed esprimersi nel mondo del lavoro, della scuola, della politica, dell’ambiente: nella società in generale. La sfida è la “ministerialità delle competenze” lanciata da Segoloni.
Nell’Anno della preghiera, quanto è importante la preghiera all’interno della coppia? Si può crescere insieme spiritualmente?
Non solo si può; si dovrebbe.
Nella vita di coppia il linguaggio della preghiera alimenta il linguaggio dell’intimità:
il modo con il quale due sposi curano la preghiera dice quanto si stiano prendendo cura della propria intimità, del proprio diventare “uno” insieme. Preghiera “di coppia” e preghiera “in coppia” costituiscono una dimensione all’interno della quale, nel suo rapportarsi con il Signore, la coppia lo fa talvolta “in” presenza dell’altro, ma fondamentalmente lo fa sempre “alla” presenza dell’altro.
Due dei quattro workshop sono stati dedicati, rispettivamente, al gender e alla crisi delle vocazioni. Che cosa è emerso?
La finalità dei workshop non era elaborare dei contenuti, ma consentire ai partecipanti di partire dalle proprie esperienze per provare a rispondere alle provocazioni offerte dalla vita reale. Stiamo aspettando che i conduttori dei laboratori ci restituiscano le sintesi, ma lo stile di lavoro prescelto è stato il mettersi in ascolto della realtà per attivare processi di riflessione e di co-learning, ossia di apprendimento insieme dalle competenze ed esperienze condivise.
Ma temi così delicati e attuali come interpellano la pastorale della famiglia?
Più che dare una parola risolutiva, occorre attivare un’esperienza di ascolto, ossia aiutare le persone ad
entrare nelle storie degli altri non con la logica del giudizio, bensì con quella dell’ascolto del grido o della domanda che c’è dietro.
La Settimana è giunta alla XXV edizione. Come è cambiata la pastorale della famiglia in questi 25 anni?
Per certi versi ha consolidato alcune consapevolezze, ma poiché in questi 25 anni la famiglia è molto cambiata, la vera sfida è che questo cambiamento d’epoca costringa la famiglia non ad accontentarsi delle conquiste fatte ma, partendo da quello che ha – il tesoro legato alla spiritualità, alla consapevolezza della sacramentalità, al buon rapporto tra sposi e presbiteri che va consolidato, ma che non è qualcosa di nuovo -, la spinga ad aprirsi a nuovi orizzonti. Ancorché stia vivendo un periodo di disorientamento, come tutti del resto, la famiglia possiede un capitale che non va sprecato, ma dovrà essere “risignificato” e reinvestito per essere in grado di porsi in ascolto di questo tempo. Una cosa che abbiamo imparato e possiamo mettere a terra è la capacità e la disponibilità all’ascolto:
oggi siamo allenati e abbiamo forse più anticorpi per resistere alla tentazione di un ascolto pregiudiziale.
Le famiglie sono pronte ad aprirsi a questa dimensione.
Da dove ripartire?
Anzitutto dall’ospitalità: da un sondaggio che abbiamo fatto in questi giorni, la famiglia avverte sempre più l’esigenza, ma anche la capacità di essere ospitale. E poi dalla bellezza e dalla diversità dei territori che abbiamo scoperto nelle storie raccontate dalle famiglie venute a Palermo da ogni parte d’Italia. Due pilastri da cui ripartire ai quali aggiungerei il bisogno di darsi un metodo per incontrarsi: qualcosa che abbiamo intuito possibile, ma che richiede di lavorarci.
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