ACQUASANTA DEL TRONTO – Sabato 24 agosto, con la preghiera guidata dal Vescovo Gianpiero Palmieri, presso l’Abbazia del Monastero di Valledacqua, ad Acquasanta Terme, è iniziata la seconda giornata dei lavori degli “Esercizi etico – spirituali per riscoprire il valore del lavoro”.
Leggi l’articolo sulla giornata di ieri: Corso Etico – Spirituale Valledacqua, Vescovo Palmieri: “Dobbiamo recuperare una spiritualità del lavoro”
L’appuntamento, che è stato organizzato dalla Diocesi di Ascoli Piceno, ma che è rivolto anche alla comunità della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, ha registrato oggi la partecipazione del prof. Luigino Bruni, docente ordinario di Economia Politica presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia Politica e Lingue moderne dell’Università LUMSA di Roma, di madre Noemi Scarpa, abbadessa del monastero delle benedettine di Sant’Anna di Bastia Umbra e di Gabriele Gabrielli, presidente della Fondazione Lavoroperlapersona di Offida.
La mattinata è proseguita con la seconda conversazione dal titolo “La vita economica alla luce della storia e della parola dei profeti”, tenuta dal prof. Luigino Bruni. Queste le sue parole: “Nel passato il monaco e la monaca erano l’eccellenza della vita civile. Se una mamma e un papà avessero voluto portare i propri figli in un luogo d’eccellenza, lo avrebbero portato in un Monastero. Oggi lo porterebbero probabilmente alla Silicon Valley; in passato invece l’avrebbero accompagnato in un’Abbazia.
Nei monasteri, infatti, si concentravano i valori imprescindibili per la crescita umana di ogni individuo: il sapere, la conoscenza, ma anche la vita economica e civile. Valori non solo religiosi, ma trasversali. Infatti, non comprendiamo pienamente l’Europa senza il monachesimo.
Quando oggi vediamo una monaca oppure vediamo un monaco, è un concentrato di 1500 anni di civiltà.
La vita economia e civile ha molto più spirito di quello che sembra e senza spirito la vita si appiattisce, diventa nichilismo organizzato”.
Il prof. Bruni ha poi domandato retoricamente: “Che cosa è la profezia biblica?”. “La profezia – ha detto – è un bene comune dell’umanità di tutti i tempi, i profeti sono un dono che accompagna la vita umana e che va oltre la vita biblica.
Il mondo è pieno di profeti anche nella Bibbia, in quei circa 500 anni, in cui troviamo il primo profeta, Samuele, che è il primo di un mondo e l’ultimo di un altro, quello dei veggenti.
In un mondo prescientifico era necessario saper leggere i tempi e c’erano per questo motivo gli interpreti, i mediatori. Nei tempi arcaici erano gli sciamani i mediatori del tempo”.
L’illustre relatore ha poi sottolineato come senza Dio ci si ripiega soltanto su sé stessi: “Quando dici Dio, vuol dire che non stai parlando con il tuo “inconscio’, ma stai parlando con qualcosa di serio. Quando esci dalle religioni e ti metti a parlare con Dio da solo, non sai con chi stai parlando.
Su 100 proposte di religione, 99 sono banalità, possiamo dire nichilismo fatto carne.
Se uno abbandona il territorio religioso, si apre il terreno dell’idolatria.
Cosa è l’idolo? L’idolo – dice Geremia – è uno spaventapasseri in un campo di cocomeri. L’idolo è nebbia, fumo, vanità.
I profeti sono molto duri contro gli idoli, perché non siamo immagine di vanità, ma siamo immagine di Dio. Quando portiamo avanti una religione faidate, ti muovi in un mondo pieno di idoli.
In un mondo post – cristiano sta tornando infatti una forma di neo-sciamanesimo”.
Bruni è poi tornato sul tema della profezia ed ha affermato: “La profezia è un grande movimento umano, di persone che si sentono abitate da una Voce. Il tema biblico è che molte di queste persone che si sentono abitate da una voce, sono falsi profeti.
Il grande tema della profezia è la falsa profezia: chi fa il profeta spesso non lo è.
Se studiate Geremia, lui combatte con falsi profeti che sono in buona fede.
La sfida della Bibbia è riconoscere i falsi profeti, che si dividono in persone in buona fede e persone in cattiva fede. I cattivi profeti non reggono molto, chi veramente fa danni sono i profeti in buona fede. La Bibbia ci dice che ci sono falsi profeti, con famiglie e scuole di falsi profeti”.
L’economista approfondendo l’aspetto della profezia nella comunità ha affermato: “Quando una comunità vive un’esperienza profetica, soprattutto le comunità carismatiche, monastiche, movimenti contemporanei, ci saranno dei profeti veri mescolati con tanti falsi profeti.
Per avere un profeta buono, purtroppo, ci saranno 99 falsi profeti. La profezia buona convive purtroppo con quella falsa, che è la grande metafora della parabola del grano e della zizzania.
È l’eccedenza che produce grano, non è la serra dove metto la piantina sicura, perché si guasta sicuramente, ma è la biodiversità che porta i frutti.
In una comunità quindi troveremo: i veri profeti, i falsi profeti in buona fede e i cattivi profeti”.
Sottolineando questo passaggio il prof. Bruni ha affermato: “Guai a quelle comunità che scartano subito i falsi profeti, perché a volte, per i buoni profeti, ci vuole il tempo necessario per emergere. Se magari una comunità li scarta per diversi motivi, come per la giovane età o perché ancora non sono pronti o perché sono critici, polemici o perché sembra falsi, magari un domani sarà un vero profeta. Stiamo facendo quindi un danno enorme. La saggezza della comunità è saper distinguere le voci e saper riconoscere alcuni segnali e far crescere i buoni profeti”.
Approfondendo la sua passione per questo tema, Luigino Bruni ha raccontato come “in piena crisi economica, mi sono messo a commentare i profeti. I miei colleghi economisti non mi capivano, ma a me serviva per far bene il mio ruolo di economista.
Tutta la scienza non bastava per dire l’oggi e tutte le parole – come affermava Sant’Agostino – diventano logore in alcuni momenti storici, non parlano più, diventano mute.
Ho iniziato così a commentare i profeti. In dieci anni mi sono immerso nel mondo biblico.
In questa immersione tra i profeti ho compreso che, per comprendere la profezia biblica, bisogna partire da Samuele, che unge prima Saul e poi Davide con cui inizia la monarchia.
Samuele non vuole dare un Re, non vuole la Monarchia, ma il popolo lo spinge prima ad avere un Re e poi ad avere un Dio come tutti.
Il popolo si lamenta infatti che le altre nazioni hanno dei semplici idoli, come le statue o la natura; invece, il popolo di Israele ha un Dio che non si può rappresentare.
A Samuele il popolo chiede: ‘Dacci un Dio come tutti!’. Questo è uno dei motivi per cui al tempo di Mosè si fanno un vitello d’oro.
La profezia, infatti, pone una sfida antropologica che non può diventare una statua, non può prendere forma, perché riguarda la complessità dell’essere umano, in quanto l’uomo non è immagine di un idolo, ma è ad immagine di Dio.
Samuele risponde con un discorso fantastico: “Guardate che poi il Re prenderà le vostre figlie e ne farà delle profumerie per la corte, prenderà i vostri figli e ne farà dei soldati…’ e il popolo risponde che vuole un Re come tutti e un Dio come tutti.
Il popolo si sente come tutti gli altri popoli: pensa di essere diverso dagli altri popoli, ma poi, colpito dalla depressione, vuole un idolo, proprio come gli altri popoli, da toccare, un vitello d’oro.”
Il professore è poi passato ad approfondire un altro grande profeta: Isaia.
Ha detto Bruni: “Isaia è il primo grande profeta scrittore, vissuto nell’VIII secolo avanti Cristo, si immagina che in realtà siano stati tre autori diversi. Isaia è definito il Dante dell’Antico Testamento.
Il profeta biblico è un virgolettato di Dio. Solo il profeta può far questo: così ‘dice il Signore”.
Nel capitolo 20 del testo di Isaia, a un certo punto riceve un ordine: andare nudo e scalzo per Gerusalemme, per tre anni, per dire qualcosa al popolo. Il profeta è egli stesso un messaggio che diventa carne.
Nella Bibbia tante volte la Parola era diventata carne grazie ai profeti. Il profeta parla con la voce, ma anche con il corpo.
Un esempio può essere Geremia che non prese moglie per essere segno con la sua vita”.
L’economista ha poi affrontato il tema della felicità in relazione alla vocazione, anche profetica: “La felicità è una concezione post -moderna che non era presente nella Bibbia, se non attraverso i figli, i nipoti, la prole.
Oggi leggiamo le vocazioni come il compimento della felicità, ma i profeti non dovevano essere felici. Sanno che la loro felicità dipende dalla fedeltà, ma non gli interessava, è troppo poco.
L’umanesimo biblico non ha la felicità tra le sue grandi parole. Gesù, infatti, nelle beatitudini parla di letizia, di gioia, non di felicità.
Alla fine della mia vita penserò: che frutti hai portato? Che senso hai dato intorno a te? Per il resto vai avanti, anche quando si sbaglia. Quando hai un problema l’affronti e pensa al senso di quello che stai facendo. Vivi!
La giustizia e la verità sono molto più importanti dell’indicatore della felicità”.
Luigino Bruni in conclusione ha letto un suo articolo, scritto per Avvenire, in cui parla del profeta Isaia e dell’essere sentinella: “Per parlare non bastano le parole della bocca, e a volte non servono. Parliamo anche con le parole del corpo, con gesti che spesso sono più forti, chiari, universali, radicali delle parole dette e scritte. Queste parole diverse a volte precedono quelle della bocca, altre volte le seguono e spiegano ciò che le parole dette non riuscivano a dire. Qualche volta le sole parole che abbiamo a disposizione per parlare, o le sole che possiamo capire, sono quelle delle nostre mani e della nostra carne. Le parole della lingua non sono buone né belle se non sono precedute, accompagnate e seguite da quelle del corpo, perché le parole disincarnate non sanno dire parole di vita. «In quel tempo il Signore parlò per mano di Isaia figlio di Amos. E gli disse: “Va’, sciogli il sacco che ti copre le reni, e dai piedi togliti i sandali”. Isaia fece così, e andò nudo e scalzo» (Isaia 20, 1-2). Isaia riceve il comando di parlare alla sua gente con il suo corpo nudo e scalzo. Esegue l’ordine profetico, ma solo dopo un certo tempo gli viene rivelato il significato: «YHWH allora disse: “Come il mio servo Isaia per tre anni è andato nudo e scalzo, quale segno e simbolo per l’Egitto e Kush, così il re di Assur condurrà via i prigionieri egiziani e i deportati kushiti, giovani e vecchi, nudi e scalzi, con le natiche scoperte”» (20, 3-4).
Entriamo sempre più nel cuore della vocazione di Isaia. La sua nudità (che non è da escludere sia stato un fatto storico) ci svela un’altra dimensione essenziale della profezia. Ci sono delle fasi della vita di un profeta in cui capisce chiaramente che deve agire, compiere un’azione anche senza capirne il significato. In quei momenti c’è una chiarezza estrema sul che cosa fare («YHWH parlò e disse…»), ma non esiste alcuna certezza, e qualche volta nessuna idea, sul perché vada fatto, non si comprende il senso di quel gesto. Sentiamo di dover lasciare un lavoro, di finire una relazione, di entrare in convento o di lasciarlo, ma non sappiamo perché lo stiamo facendo, o quantomeno non siamo affatto certi che il senso che stiamo dando a quella scelta, e/o quello che gli altri le danno, sia quello vero. A volte il senso si svela molti anni dopo. Altre volte soltanto alla fine della vita, qualche volta mai, ma abbiamo continuato a “camminare nudi e scalzi” per la città, fino alla fine. Per i profeti camminare è più importante di capire il senso della corsa, perché il significato primo e più importante è quello della voce che ti dice di camminare. Si tradisce la vocazione quando smettiamo di camminare nudi e scalzi, non quando non capiamo più il perché. Non è mestiere del segno interpretare sé stesso. L’esegeta, se c’è, deve essere un altro. I profeti sono significanti che non conoscono il proprio significato. Sta quasi tutta qui la gratuità-povertà-obbedienza-castità della loro vita, non poter conoscere il significato di che cosa sono e di che cosa fanno. Nei profeti allora si comprende, con estrema nitidezza, qualcosa che vale per ogni essere vivente, certamente per gli umani: non siamo padroni del senso ultimo delle nostre azioni, della nostra vita, della sua direzione e del suo significato. Siamo mistero a noi stessi. Qualche volta incontriamo un ermeneuta che ci spiega qualche nostra azione e brano della nostra storia, ed è grande festa; ma sappiamo che l’interpretazione dell’intero spartito non ci è data. Le nostre sinfonie sotto il sole, anche quelle maestose, meravigliose ed eroiche, sono sempre incompiute. Continuando a camminare in compagnia di Isaia, mentre siamo ancora ammaliati e incantati dal suo gesto profetico, voltiamo pagina e nel capitolo successivo ci attende uno dei cantici più belli di tutta la Bibbia. È lo Shomèr ma-millàilah?: «Sentinella: quanto manca al giorno?». «Mi disse il Signore: “Va’, sii sentinella notturna. Quello che vedi grida. Tendi l’orecchio, tendilo all’estremo”. (…) Allora la vedetta gridò: “Nella torre di guardia, Signore, io sono colui che sta. Tutto il giorno resto al mio posto, mai di notte lo abbandono”» (21,6-8). Porsi come sentinella è la risposta di Isaia allo stesso comando di YHWH: «Va’». Si va diventando un segno muto che percorre le città nudo e scalzo, ma si va anche mettendosi di guardia “per tutto il giorno” e per “tutta la notte”. Si va vagando sulla terra, si va restando nell’unico posto di vedetta. La sentinella è il profeta – tra le molte immagini della vocazione profetica, e forse di ogni autentica vocazione umana, quella della sentinella è quella che amo di più. Quella vedetta avvista carri, cavalli, cavalieri, vede la caduta di Babilonia. Ma poi scopriamo subito che è ancora un altro il mestiere-compito-missione di quella sentinella. Il testo subisce un’impennata poetica impensata, e la sentinella dal suo compito ordinario di avvistatore di nemici diventa voce dentro un misterioso, meraviglioso, dialogo: «Mi gridano da Seir: “Sentinella, quanto manca al giorno? Sentinella, quanto resta della notte?”. Risponde la sentinella: il mattino viene, ma è ancora notte! Se volete domandate, chiedete, tornate e domandate ancora» (21,11-12). È una vetta della poesia di Isaia, un vertice della coscienza dell’umanità. Un verso più grande del suo autore, più grande del già immenso libro di Isaia. Un puro dono di gratuità, perché sono parole non funzionali al lamento sulle città e, forse, nemmeno alla teologia di Isaia. Non servivano al suo discorso, potevano non esserci. Parole incomprensibili nel contesto, e che ogni generazione e ogni lettore ha dovuto interpretare e reinterpretare e continua a interpretare e a non afferrare. Un verso che dovrebbero commentare solo i grandi poeti, i veri maestri spirituali, chi ha conosciuto le notti infinite delle carceri e dei lager, o quelle delle lunghe malattie proprie e degli altri – “quanto resta della notte?”. Ma tutti possiamo pregarle, cantarle e farci cantare da esse.
Il poema notturno della sentinella è molte cose insieme, e forse il primo senso che aveva in mente il suo primo autore è ormai perso per sempre. È la preghiera dell’attesa e della speranza nel tempo della notte, dell’attesa e della speranza di Dio, dell’amico, della pace, del paradiso, della giustizia, dell’amore che ancora non torna e che dovrebbe tornare. Il canto di chi lotta per non perdere la fede, di chi sa che l’alba arriverà ma non sa quando, e il buio continua. È il pianto delle notti dell’anima, che non finiscono mai. Ma è anche una rivelazione del mistero della vocazione profetica, e quindi dei carismi, di ieri, di oggi. Il profeta è sentinella della notte. Non è uomo o donna della luce, non è abitante del mezzodì. Sa che la notte non è per sempre, l’alba arriverà, ma soprattutto sa di non sapere quando e sa che «è ancora notte». Abita la notte, come tutti, ignorante, come tutti, del tempo dell’aurora. Non chiama la notte giorno, non accende fuochi per spegnere il buio. La conosce, è il suo tempo, e non dà risposte che non può dare. Il profeta non è un astrologo, non sa leggere le stelle, non è un indovino né un aruspice. Non è questo il suo mestiere. Lui è “colui che sta”, rimane nel suo posto di vedetta notturna. E lì spera, attende, crede, non sa, come tutti, con tutti. Ma dialoga con i passanti, parla con i viandanti della notte: «Se volete domandate, domandate ancora, tornate a chiedere». Non può dare quelle risposte, ma non si rifiuta di ascoltare le domande. Non scaccia i domandanti perché non ha risposte da dare, e addirittura li invita a continuare a domandare, a tornare, a ritornare. Allora il profeta è l’uomo e la donna del dialogo notturno, è il compagno e la compagna del tempo delle domande senza risposte. Può solo rispondere donando le sue uniche due certezze: che è ancora notte e che l’alba arriverà. Non è esperto dei tempi, non tenta previsioni sul momento aurorale. La speranza profetica non nega la notte e non nega l’alba, e la sua fedeltà alla vocazione sta nel saper restare ignorante tra la notte e l’alba, e invitare i passanti a fare domande. I profeti amano il proprio tempo dialogando con chi chiede in cerca di risposte senza poter rispondere. E mentre abitano questa notte dialogante, iniziano i primi bagliori del giorno. Non c’è alba più bella di quella che ci sorprende in compagnia dei profeti onesti. La falsa profezia è negazione della notte o negazione dell’alba. Il profeta è sempre tentato di trasformarsi in indovino, in ermeneuta dell’alba che non c’è ancora e da molti agognata, dimenticando la realtà concreta della notte. Questi falsi profeti tradiscono la verità della notte, perché invece di restare solidali con tutti gli ignoranti del tempo pensano di annullare il buio offrendo la certezza sul tempo del giorno, come se la conoscenza del momento del termine della notte possa cancellare la realtà dell’assenza della luce. Dialogano sul futuro astratto e fanno perdere ai loro interroganti la concretezza della notte. Eskaton senza storia, paradiso senza terra, tempio senza piazza, risurrezione senza croce. Il profeta non è un venditore di futuri che non conosce, non è un tecnico del tempo, è soltanto un abitante ignorante della notte.
C’è poi il falso profeta che nega l’alba, e mentre annuncia onestamente che «è ancora notte» non dice anche che «il giorno verrà». È questa la tentazione che colpisce soprattutto i profeti onesti, che nel perdurare della notte, attorniati da venditori di falso futuro consolatorio, iniziano a pensare che la sola possibilità che hanno per essere solidali e veri con i passanti è cancellare la fine della notte, eternizzare il buio, cancellare l’attesa, la speranza e la fede. La storia perde l’eskaton, si resta crocifissi per sempre.
I profeti non-falsi sanno abitare lo scarto tra la notte e l’alba, sanno stare con la propria ignoranza e con quella dei passanti notturni, fedeli nel proprio posto di avvistamento. E accompagnano e riempiono la notte parlando e riparlando, ascoltando e riascoltando le domande di chi continua a chiedere: «Sentinella: quanto manca al giorno?».
A breve pubblicheremo gli interventi di madre Noemi Scarpa, badessa del Monastero di Bastia Umbra e Gabriele Gabrielli, presidente della Fondazione Lavoroperlapersona di Offida.
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