Daniele Rocchi
Un cessate il fuoco umanitario immediato nella Striscia di Gaza per consentire all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di vaccinare circa 640.000 bambini di età inferiore ai 10 anni in seguito alla conferma del primo caso di poliomielite a Gaza dopo 25 anni. È l’appello che viene dallo stesso Oms e dall’Unicef e raccolto da una ventina di organizzazioni umanitarie, tra le quali Islamic Relief Worldwide, MedGlobal, ActionAid, Churches for Middle East Peace, Norwegian Refugee Council (Nrc), Oxfam, International Rescue Committee e Save the Children dopo che il Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, ha confermato il caso di un bambino di 10 mesi non vaccinato a Deir Al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza.
Lo scorso luglio l’Oms aveva riscontrato il virus in campioni di liquami provenienti anche da siti di Khan Younis. La ricomparsa del poliovirus a Gaza, denunciano le associazioni “è il risultato diretto della distruzione delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie e delle restrizioni del governo israeliano su riparazioni e forniture. Insieme al sovraffollamento, allo sfollamento e a un sistema sanitario paralizzato, queste azioni hanno creato un ambiente favorevole alla diffusione del virus nella Striscia”. Il contagio, secondo i virologi, avviene per via oro-fecale, con acqua o cibi contaminati o attraverso la saliva, colpi di tosse e starnuti da soggetti ammalati o portatori sani. Condizioni all’ordine del giorno tra i gazawi costretti all’emergenza. I combattimenti continui nella Striscia, l’ostruzione israeliana all’ingresso dei convogli, il transito pericoloso degli aiuti all’interno del territorio di Gaza, impediscono, secondo le agenzie umanitarie, l’accesso delle forniture sanitarie a Gaza, tra queste le dosi di vaccino che sarebbero già pronte all’interno dei camion refrigerati necessari al loro trasporto.
La risposta del Cogat. Di diverso avviso il Cogat (Coordinatore israeliano delle attività governative nei Territori) che domenica 18 agosto ha comunicato che “quasi 3 milioni di dosi di vaccino antipolio sono state consegnate nella Striscia di Gaza dallo scoppio del conflitto (ottobre 2023) e precisamente 282.126 fiale di antipolio, pari a 2.821.260 dosi”. Il Cogat, che opera in seno al Ministero della Difesa israeliano, nella nota ricorda che “il tasso di vaccinazione contro la poliomielite tra i palestinesi nella Striscia di Gaza nel 2023 era del 95% e negli anni precedenti era arrivato al 99% (secondo l’Oms)” e spiega che “l’introduzione dei vaccini nella Striscia di Gaza è stata organizzata insieme all’Oms e all’Unicef ma senza il coinvolgimento dell’Unrwa. Subito dopo la scoperta del primo caso di poliomielite il Cogat ha consegnato altre 9.000 fiale, che forniscono 90.000 dosi, passate attraverso il valico di Kerem Shalom. Alla fine di agosto, comunica sempre il Cogat, prenderà il via una campagna vaccinazioni con vaccini adatti a combattere il ceppo del virus rilevato nei campioni ambientali a Gaza. Ad essere vaccinati saranno soprattutto i bambini gazawi di età inferiore ai dieci anni. A riguardo l’agenzia Ocha (Coordinamento affari umanitari) delle Nazioni Unite ribadisce che “il successo della prossima campagna di vaccinazione contro la poliomielite si basa sull’impegno delle parti coinvolte nelle ostilità a garantire una pausa umanitaria di almeno sette giorni durante ogni round della campagna. Senza questo, l’insicurezza impedirà la piena attuazione della campagna e il rischio che il poliovirus si diffonda nella Striscia e oltre rimane alto”.
Malattie della pelle e epatite. Ma l’emergenza sanitaria a Gaza non si ferma al rischio epidemia di poliomielite ma riguardano anche le malattie della pelle e l’epatite virale. Agli inizi di agosto l’organizzazione ActionAid aveva denunciato che “donatori di sangue erano stati respinti dall’ospedale al Awda, nel nord di Gaza, perché troppo malnutriti e ritenuti troppo malati per sottoporsi al prelievo. Questo nonostante l’enorme richiesta di sangue per aiutare i malati e i feriti”. Secondo Mohammed Salha, direttore dell’ospedale Al-Awda, partner di ActionAid , “le analisi del sangue effettuate sulle numerose persone che vengono a donare rivelano un alto tasso di malnutrizione tanto che non possono essere prelevate unità da utilizzare per i feriti e i malati. La malnutrizione è molto diffusa, soprattutto nel nord di Gaza. Da oltre cinque mesi, nel nord della Striscia non arrivano verdure, frutta o carne”. Crescono anche i casi di malattie della pelle e di epatite virale a causa di “una combinazione tossica di intenso sovraffollamento, mancanza di acqua e prodotti per l’igiene e accumulo di rifiuti e liquami nelle strade sta creando le condizioni ideali per il prosperare delle malattie”.
Nathalie Sayegh, giovane addetta di Caritas Jerusalem a Gaza, ha raccontato la sua esperienza di sfollata nel complesso della chiesa ortodossa di San Porfirio a Gaza e il suo calvario con l’epatite. A causa della chiusura degli ospedali da parte delle forze israeliane, Nathalie non è stata in grado di ricevere una diagnosi corretta. “Tutto è iniziato quando a una bambina e a un giovane adulto è stata diagnosticata l’epatite”, ha spiegato la giovane sul sito della Caritas Jerusalem che opera a Gaza con personale medico-sanitario e un centro clinico. “Poco dopo, ho iniziato a manifestare i sintomi anch’io. Nonostante i continui sforzi di disinfezione, la malattia sembrava diffondersi inspiegabilmente. I casi diagnosticati venivano messi in quarantena, anche se l’isolamento è difficile perché si era tutti vicini in una sala. Nella chiesa di San Porfirio, non ci sono dottori ma solo un farmacista, Riyad Shaheena, di Caritas di Gerusalemme”. La mancanza di cibi e di prodotti essenziali come frutta e verdura, che non sono disponibili o hanno prezzi proibitivi a causa del conflitto, rende ancora più arduo curarsi. “Anche l’acqua è difficile da consumare a causa del suo sapore sgradevole. I cibi in scatola, nostro principale sostentamento, aggravano disagio e ostacolano la guarigione”. “Il peso psicologico è immenso”, ha rivelato la giovane che oggi è guarita. “Le persone reagiscono con paura e avversione quando vengono a conoscenza di casi di epatite, rendendo difficile l’interazione sociale. Mantenere la resilienza è fondamentale per la guarigione mentale, fisica e sopportare l’urto della guerra”.
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