Di Alberto Campaleoni

Voti e giudizi. La scuola li comprende inevitabilmente, perché non esiste un percorso reale di apprendimento che non possa/debba essere misurabile.

Si può discutere all’infinito – quante volte succede davvero, anche con toni polemici – sull’opportunità di calibrare/spiegare al meglio le valutazioni, vuoi con termini più o meno efficaci o con la secca dinamica dei numeri, tuttavia l’elemento della misurazione/valutazione resta fondamentale. Non solo a scuola.

Ma qui restiamo in ambito scolastico. Cosa si ripromette l’istituzione pubblica? Di promuovere – detta in sintesi – l’uomo e il cittadino, di contribuire alla crescita globale dei più giovani in vista del loro pieno inserimento nella società, nel mondo, con consapevolezza e competenze adeguate.

Come fa la scuola a perseguire una finalità tanto alta? Attraverso la trasmissione di conoscenze, di abilità, la promozione di atteggiamenti… grazie alle materie scolastiche e alle loro potenzialità, ma anche grazie alla complessa vita di relazioni che si realizza all’interno degli istituti. Con la garanzia della guida di adulti capaci – docenti, dirigenti, un po’ tutto il personale scolastico e in teoria in collegamento/collaborazione con le famiglie oltre che con altre agenzie educative, dove ci siano – ai quali tocca la responsabilità di facilitare in vario modo i percorsi di apprendimento e di crescita degli allievi.

Valutare questi percorsi, il raggiungimento degli obiettivi come lo svolgimento stesso dei processi, è un compito indispensabile, pena lo smarrimento della strada. Non solo: valutare deve essere un compito condiviso, nel senso che tocca a tutti, ciascuno per la sua parte, allievi compresi. Condiviso, socializzato e comprensibile. E qui veniamo anche alla questione della comprensibilità delle valutazioni: se un voto numerico, secco, è facile da interpretare sulla scala del raggiungimento o meno di un risultato, è anche vero che, se non fosse accompagnato da adeguata contestualizzazione, potrebbe disorientare. Un 4, ad esempio, può essere una stroncatura insopportabile o uno stimolo a far meglio. Cosa decide: l’accompagnamento responsabile e consapevole, la capacità di condividere e spiegare, motivando.

Allo stesso modo un giudizio sintetico – sufficiente o insufficiente – di per sé può avere valenze molto differenti. E non è un caso che se ne discuta da sempre, cercando modi diversi e di volta in volta più efficaci – nelle intenzioni della scuola – di esprimere le valutazioni.

Se questo è l’orizzonte di riferimento, la recente polemica sul cambio di giudizi alla primaria si sgonfia da sola. Difendendo la disposizione che riporta in auge i giudizi sintetici (ottimo, sufficiente, buono…), il ministro Valditara ha spiegato: “Se sulla pagella scrivo ‘In via di prima acquisizione’ cosa capisce un bambino?”. E ha aggiunto: “Meglio tradurre con ‘insufficiente’: gli alunni hanno diritto di comprendere il proprio grado di preparazione in modo da poter orientare al meglio il loro impegno”.

Maggiore comprensibilità, dunque. Che però ancora una volta non è solo nei termini usati. L’invito che sembra di dover raccogliere è sì alla semplificazione del linguaggio, ma più ancora all’accompagnamento e alla condivisione, alla capacità – chiesta in particolare agli adulti – di giustificare e dare valore ai “voti” (naturalmente non solo alla Primaria e a pensarci bene non solo a scuola). Valutare è indispensabile. Farlo insieme è educativo.

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