Daniele Rocchi
La Corte penale internazionale dell’Aia (Cpi) ha emesso un mandato di cattura per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant e, con loro, per il capo dell’ala militare di Hamas, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri (meglio noto come Mohammed Deif). I tre giudici hanno deciso all’unanimità sulla base delle accuse di crimini contro l’umanità e crimini di guerra per Gallant e Netanyahu, mentre per Deif l’accusa è per il massacro del 7 ottobre contro Israele. La Corte sostiene “ragionevolmente fondata” l’ipotesi
che Netanyahu e Gallant abbiano la responsabilità penale dei crimini di loro competenza. Le motivazioni della Camera rimandano ai “crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi almeno dall’8 ottobre 2023 fino ad almeno il 20 maggio 2024, giorno in cui la Procura ha depositato le domande di mandato di arresto”. La Cpi parla di “un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Gaza”. Il tribunale ha respinto l’obiezione israeliana secondo la quale la stessa Cpi non avrebbe competenza sui fatti oggetto dell’indagine. La Corte sostiene che non è necessario che Israele riconosca la sua giurisdizione. Sul tema abbiamo intervistato Vincenzo Buonomo, Ordinario di diritto internazionale all’Università Lateranense.
Professore, come si è giunti a questa decisione della Cpi?
Il Procuratore presso la Cpi aveva depositato lo scorso 20 maggio la richiesta dei mandati di arresto alla Corte che iniziava ad esaminare gli atti. Il 26 settembre lo Stato di Israele, che non è parte dello Statuto di Roma che istituisce la Corte, ne ha contestato la competenza a giudicare, indicando che la Cpi non può esercitare la sua giurisdizione su quanto si verifica nei territori (Gaza e Cisgiordania) dello Stato di Palestina, che invece della Corte è parte. Inoltre, Israele ha chiesto di ricevere un nuovo avviso di inizio indagini verso suoi cittadini e di bloccare ogni procedimento sui mandati di arresto. Oggi la Cpi da un lato si dichiara competente a procedere poiché i fatti contestati sono avvenuti su un territorio, la Palestina, in relazione al quale la Corte può operare; dall’altro richiama opportunamente lo Statuto di Roma in base al quale il diritto di contestare la giurisdizione della Corte non si può esercitare prima dell’emissione di un mandato d’arresto: una norma che venne inserita nel progetto dello Statuto dopo una lunga trattativa guidata dai negoziatori olandesi, nella notte del 15 luglio 1997. Anche quanto alla richiesta di una nuova comunicazione di inizio indagine, la Corte ha ritenuto operante quella emessa già nel 2021 – quindi il riferimento è a quanto si verificava da tempo sui territori palestinesi – non costatando pertanto motivi per bloccare i mandati di arresto.
La Corte sembra aver riconosciuto come crimine anche l’uso della fame, da parte dell’esercito israeliano, come strumento di guerra. È così?
La Cpi non ha fatto altro che richiamare una condotta antigiuridica che il suo Statuto fa rientrare tra i crimini contro l’umanità. Secondo l’Art. 7 si tratta di quegli atti commessi “nell’ambito di un attacco esteso o sistematico contro una popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco”. È interessante notare che svolgere attività militari impedendo l’accesso al cibo, e cioè gli alimenti come arma di guerra, rientra nello “sterminio” di un gruppo, popolo o comunità, come previsto dal diritto internazionale umanitario. E non da oggi.
Che cosa significa tutto questo in termini concreti? Cosa può succedere adesso?
Le decisioni della Cpi interessano la Comunità internazionale nel suo complesso, ponendo obblighi per gli Stati parte dello Statuto, ma imponendo anche effetti per tutti. Mi riferisco al fatto che la Cpi richiama quella “pubblica coscienza” che almeno dal 1899 – la prima conferenza mondiale per la pace – è posta a garantire anche durante un conflitto la tutela della popolazione civile e i non combattenti. Possono sembrare rilievi teorici, eppure non c’è altro modo che non sia l’educazione delle coscienze, che può porre fine alla barbarie. Le norme, i tribunali, le pene non hanno effetto se manca la coscienza delle loro necessità per garantire un ordine sociale e relazioni stabili tra gli Stati.
Il mandato di cattura è immediatamente esecutivo. Sia Netanyahu che Gallant saranno passibili di arresto se si recheranno in uno dei 124 Paesi che fanno parte della Cpi. Tra questi c’è anche l’Italia. Quanto rischiano i due leader israeliani?
Su questo aspetto rimane ancora convincimento degli Stati che i crimini commessi durante un conflitto debbano attendere la conclusione del conflitto stesso per essere giudicati. Per questo gli Stati sono restii ad attivare quella necessaria cooperazione con la Corte che – va ricordato – non ha propri strumenti per dare attuazione alle sue richieste e così avviare i processi per accertare la veridicità delle accuse. Del resto, non è così per il mandato di arresto posto dalla CPI per Putin? E in precedenza non è stato così per l’allora Presidente del Sudan al-Bashir? Torniamo all’idea che, se nel 1998 si giunse ad istituire una Corte penale internazionale che facesse giustizia, ma in modalità permanente e non creata ad hoc a seguito di conflitti (i casi di Norimberga, Tokyo, ex-Jugoslavia, Ruanda, Cambogia…) è perché era maturata l’esigenza di una giustizia internazionale continuativa a causa delle tragedie, dei crimini di guerra, dei genocidi che si erano verificati, dal regime nazista a quello dei Khmer rossi. Oggi la coesione intorno a quell’obiettivo sembra scomparsa con gli Stati che cercano di sviare da un sentire comune. Ma se riescono a farlo in termini tecnico-giuridici, non lo possono fare in termini di lealtà e condotta. E i conflitti in atto lo stanno dimostrando.
Il presidente israeliano, Isaac Herzog, ha parlato di “assurda” decisione e di “giorno nero per la giustizia e per l’umanità”. Il mandato della Cpi può essere letto come una ‘vittoria’ simbolica per i palestinesi e potrebbe fare aumentare la pressione internazionale su Israele?
L’obiettivo della Corte è anzitutto di svolgere una funzione “complementare” a quella degli Stati sui quali – indipendentemente dalla loro adesione allo Statuto di Roma – è imposto dal diritto internazionale umanitario di impedire crimini durante i conflitti armati. Di qui l’obbligo di perseguire i crimini internazionali e coloro che ne sono accusati. Addirittura, secondo il principio “aut dedere aut iudicare” (sottoporre a giudizio o estradare, ndr.) il diritto internazionale prevede che, se uno Stato non vuole o non può farlo, rimetta il caso ad un altro Stato, e oggi alla stessa Cpi. E poi la Corte ha una funzione deterrente, potremo dire educativa e quindi preventiva di condotte criminali. Nel perseguire i crimini internazionali, anche attraverso lo strumento processuale, l’obiettivo è l’accertamento di fatti e responsabilità, non fare dei vincitori. Sarebbe solo un modo di continuare a combattere una guerra in un’aula di tribunale. E non sarebbe giustizia.
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