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Di Nicola Salvagnin
ITALIA – La metafora della coperta corta, che se la tiri da una parte scopre le spalle dello Stato, e la tiri dall’altra scopre i piedi degli enti locali, s’addice perfettamente al tema dei tributi italiani. Ogniqualvolta Roma decide di tagliare i trasferimenti di fondi dal centro alla periferia – cioè soprattutto a Regioni e Comuni –, questi si trovano spalle al muro.
Se non vogliono togliere servizi considerati fondamentali dai cittadini-elettori (trasporto pubblico o scolastico, asili nido…), alzano le tasse di loro competenza: dall’addizionale Irpef alla tassa rifiuti fino all’Imu sulle seconde case o le attività produttive. E quel che non si paga con la destra, si finisce di pagare con la sinistra…
Sta succedendo pure in queste settimane, con il Governo intento a limare di qua e di là per togliere l’Imu sulla prima casa e il punto di Iva in più, salvo poi scaricare (in parte) il costo di tali operazioni sugli enti locali. Un federalismo fiscale all’italiana, dunque, che alla fine nulla lascia in più nelle tasche delle famiglie. C’è solo il giochetto mediatico di affermare urbi et orbi che “l’Imu non c’è più”, salvo il fatto che l’Imu c’è (parzialmente) ancora, tornerà il prossimo anno e nel frattempo i contribuenti pagheranno tanto quanto se non di più con le occulte accise sui carburanti, con uno 0,1% in più di addizionale Irpef regionale o comunale, con un bollo che fino a ieri non c’era, e via di questo passo.
Perché, in buona sostanza, se le spese non calano, le entrate non possono ridursi: si fa solo il gioco delle tre carte che fa tanto movimento e confusione, ma non cambia praticamente nulla. E la spesa pubblica non è calata di un etto, se è vero (come è vero) che pure in questi ultimi tre anni di austerity il debito pubblico è continuato a crescere, sfondando quota 2mila miliardi.
Bene, cioè male: nonostante la nostra situazione di malati gravi, continuano a latitare le grandi misure strutturali che ci consentano di uscire da questa melma che ci avvinghia alla recessione. La stretta sulle pensioni, più che una grande riforma, è stata un grande sacrificio imposto a milioni di noi, ma solamente spostato nel tempo così da apparire meno doloroso. E la nostra malattia è sempre quella: spendiamo troppo, spendiamo male, spendiamo cifre che non ci possiamo permettere. Punto. E non è solo colpa di chi ci governa: i centri di spesa sono ormai troppi, e incontrollati. Quando leggiamo che la Regione Sicilia, isola non attribuibile alla Scandinavia, paga gli stipendi a dei maestri di sci, non riusciamo più nemmeno a sorridere.
Dentro questa tenaglia, strette tra un’imposizione fiscale da salasso e un’irresponsabilità di spesa da comiche americane, ci stanno le famiglie italiane. Che fanno la loro parte, ma che chiedono anzitutto considerazione ad uno Stato – forse l’unico in Europa – che a livello fiscale (e non solo) considera solo l’individuo e mai i nuclei familiari. Penalizza chi cementa questa società, punisce chi fa figli nonostante la nostra malattia più grave sia la denatalità.
È per questo che dobbiamo rapidamente passare dai politici (che pensano soprattutto alla propria, di famiglia) alla Politica che guardi al bene comune. Lo guarda con occhi amorevoli, e non per scovare l’ennesima addizionale da nascondere nelle pieghe di un decreto o una delibera votati il 15 agosto.

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