Alimentata dalla speranza e strutturata sulla speculazione, la tratta, uno dei più floridi commerci del mondo globalizzato, sembra senza fine: con la sua logica spietata, i suoi profitti, il carico di morte, che a Lampedusa ha emozionato il mondo, persino i compassati vertici dell’Unione europea. Per sconfiggere i negrieri del XXI secolo ci vorrebbe una repressione capillare o una liberalizzazione totale: due ipotesi entrambe impraticabili. Non ci sono muri che possano arginare i grandi movimenti di popolazione. Né è possibile aprire indiscriminatamente le frontiere. E altrettanto impraticabile sembra la soluzione vera, innescare meccanismi di sviluppo (e prima ancora di pace) nei Paesi d’origine, che rendano l’esodo inutile e non conveniente.
Apparentemente non c’è soluzione, dunque, al di là della pietà per le vittime. Ma non è così. Oltre a farci riflettere sul nostro “modello di sviluppo”, come non si stanca di fare Papa Francesco, e sulle relazioni tra sistemi economico-politici, tanto più in questo tempo di globalizzazione, ci sono due questioni da affrontare.
La prima, di politica europea e internazionale, riguarda la necessità di una convinta e strutturata partnership tra Nord e Sud Mediterraneo, che le cosiddette “primavere”, pessimamente gestite delle cancellerie dell’Unione europea, hanno ancor più indebolito, rimpallo di responsabilità e piccoli sgarbi compresi. Oltre a tanta inutile retorica.
La seconda questione riguarda l’Italia, per una rivisitazione della complessiva “governance” dell’immigrazione. Tra la “legge Martelli” del 1989, la “Turco-Napolitano” del 1998 e la “Bossi-Fini” del 2002, la legislazione è sempre stata caratterizzata dalla rincorsa di emergenze. Alla prova della strage di Lampedusa, la legge del 2002 mostra limiti vistosi, a partire dall’illusione del pugno di ferro risolutore.
Ma sarebbe improduttivo lasciare il dibattito sulla revisione allo sterile pendolarismo tra “chiusura” e “apertura”, buttarla insomma ancora una volta in politica, ovvero combattere su questo tema la vecchia e stracca guerra tra gli schieramenti, che diventa in concreto guerra tra poveri. In realtà la definizione delle politiche per l’immigrazione, nell’arco di poco più di vent’anni, è diventata uno dei temi-chiave per impostare il nostro futuro di popolo e di nazione. Per questo va sottratto alle strumentalizzazioni e deve diventare veramente un terreno di “larghe intese”. Il punto di partenza, guadagnato anche sulla scorta di una spontanea mobilitazione delle coscienze dopo le recenti stragi, ultima e più grave quella di Lampedusa, è proprio una riforma della legislazione attuale, così da far coincidere il rispetto per la dignità di tutti gli uomini con la realistica percezione del quadro geo-politico e degli interessi in gioco, in un tessuto di cultura civica forte, cioè di diritti e doveri di cittadinanza chiari e precisi per tutti.
Così da passare dalle troppe, impotenti, parole, ai fatti, per piccoli e iniziali che siano.
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