“La beatificazione dei martiri coreani è una bellissima notizia per la Chiesa coreana. Sono pieno di gioia e ringrazio la Santa Sede per tale decisione. Vorrei condividere questa felicità con tutti coloro che si sono adoperati nel processo di beatificazione e tutti i fedeli che pregano ardentemente per la canonizzazione”. Con queste parole l’arcivescovo di Seul, monsignor Andrew Yeom Soo-jung, che verrà creato cardinale da Papa Francesco nel concistoro ordinario del 22 febbraio, ha commentato – secondo quanto riporta l’Agenzia Fides – il decreto firmato il 7 febbraio scorso da Papa Francesco che ha aperto la strada perché la Congregazione per le cause dei Santi decreti il martirio dei servi di Dio Paolo Yun Ji-chung, laico e 123 compagni, uccisi in Corea in odium fidei nel 1791. “I martiri coreani – ha aggiunto l’arcivescovo di Seul – sono grandi modelli di santità che hanno attraversato le barriere di status sociale e amato il prossimo senza discriminazione di genere, classe sociale, religione. Erano promotori dei diritti umani e hanno giocato un ruolo importante nella storia dell’intera nazione coreana”.
La storia di Paul Yun Ji-Chung. La Chiesa di Corea venera già 103 martiri – vittime della persecuzione di Shinyu, avvenuta nel 1801 – canonizzati nel 1984 a Seul da Giovanni Paolo II, nella prima cerimonia di canonizzazione avvenuta al di fuori dal Vaticano e che ha avuto luogo in occasione del 200° anniversario della nascita della Chiesa coreana. Il più famoso dei nuovi martiri è Paul Yun Ji-Chung. Apparteneva ad una famiglia nobile coreana. Nel 1791, alla morte della madre, si rifiutò di seppellirla secondo il rito tradizionale del Confucianesimo. Divenne il primo martire coreano proveniente da famiglia di alto grado sociale e con la sua vicenda iniziò la persecuzione su larga scala dei cristiani, chiamata di Sin-hae.
10mila martiri nell’arco di un secolo. L’inizio dell’evangelizzazione in Corea risale al 1784, quando il primo coreano – Lee Seung Hun, un laico e uomo colto – fu battezzato a Pechino con il nome di Pietro. Tornato in Corea, Lee battezzò a sua volta i suoi compagni e diede inizio alla prima comunità cristiana. Il numero globale di martiri coreani viene calcolato intorno a 10mila nell’arco di un secolo. La persecuzione dei cristiani iniziò a decrescere a seguito dei trattati stipulati con i Paesi occidentali, intorno al 1880, per poi riprendere dopo il 1910, quando fu vietato l’uso dell’Antico Testamento e solo una versione del Nuovo Testamento, severamente censurata, poteva essere predicata. Con l’indipendenza ottenuta nel 1945, la penisola coreana fu divisa in due parti: il Nord e il Sud. In quegli anni, nel Sud vi erano 100mila cattolici in circa 100 parrocchie, nel Nord circa 55mila, in circa 50 parrocchie. I missionari si trasferirono nella Corea del Sud e nessun missionario, viste le durissime restrizioni imposte ai cristiani, riuscì a ritornare nel nord della Corea. Durante la Guerra di Corea (1950-1953), le truppe nord-coreane penetrarono nel Sud e rastrellarono missionari, religiosi stranieri e cristiani coreani. Al Nord furono rasi al suolo i Monasteri e le Chiese; i monaci e i sacerdoti furono arrestati e condannati a morte. La persecuzione religiosa portò nei lager 166 tra sacerdoti e religiosi presenti nel territorio, di cui oggi non si hanno più notizie. I cattolici presenti nel Paese, nel corso degli anni, sparirono nel nulla. Nicholas Cheong Jin-suk, arcivescovo di Seoul, nominato cardinale da Benedetto XVI il 24 marzo 2006, definì la Chiesa coreana una “Chiesa del silenzio”.
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