telefonino
Di Emanuela Vinai
Una ragazzina statunitense è morta travolta da un treno: stava cercando di recuperare il cellulare finito accidentalmente sulle rotaie.
Due righe di agenzia confinate in cronaca cui nemmeno si farebbe caso più di tanto se non inducessero un pensiero che si fa tarlo: ma se cadesse a me il telefonino sui binari, cosa farei?
Non so voi, ma io quasi certamente mi lancerei nel recupero senza pensarci, con volo acrobatico e slancio plastico, del tutto incurante anche dell’arrivo dell’Orient Express figuriamoci del regionale da Viterbo.
Smarrire o danneggiare seriamente quella che ormai è a tutti gli effetti appendice sensibile (e insostituibile salvo rarissimi backup) della nostra iperconnessa vita, appare ai più come una perdita irreparabile.
E non senza ragione. Lo smartphone medio contiene nell’ordine: numeri di telefono non altrimenti rinvenibili, mail lavorative che racchiudono mesi di contrattazioni, fotografie di vario genere e catalogazione che annoverano in ugual misura affetti&difetti, filmati risibili e totalmente inutili ma tanto condivisi, videogiochi in rete che identificano ansia competitiva e relativi record (regolarmente stracciati dal nipotino cinquenne), messaggini assortiti da rileggere nei momenti meno adatti, chat memorabili su Whatsapp con chi non sa più nemmeno il nostro nome.
Di fatto, e con buona pace della tranquillità perduta, molto della nostra esistenza in vita e delle relazioni sociali è ormai racchiuso nella scatolina nera a cover assortite che ci portiamo dietro persino nel momento e nel luogo più privato del mondo: quello in fondo a destra.
Nottetempo, basta un bip e una lucina lampeggiante per destarci dai sogni migliori: ci sei? Sono qui, dimmi. In luogo affollato poi, il trillo dell’aggeggio provoca scene di ricerche affannose e sguardi febbrili, come accade solo all’udire il vagito disperato del primogenito: ecco, è il mio!
E vogliamo parlare del cinema? Una volta lo schermo era uno solo, non so se ricordate: grande, in fondo alla sala, vi veniva proiettato il film. E quello si guardava. Chi si annoiava perché trascinato dalla fidanzata a vedere il filmone strappalacrime, al limite esibiva un discreto filo pendulo dall’orecchio che tradiva la radiolina sintonizzata sulla partita. Oggi nel buio delle sale cinematografiche brillano a più riprese fastidiosi faretti bluette: i mini schermi personali di chi non riesce a evitare di comunicare all’universo mondo che il film è noioserrimo e che si fa dopo e cosa fate voi? Il tutto inficiando regolarmente la visuale e la concentrazione di tre file di spettatori, inermi di fronte all’ennesima prepotenza declinata sotto forma di inquinamento visivo.
Eppure si sopporta in silenzio, con brevi mugugni, consci di essere vittime più o meno riconosciute della sindrome della mancanza di campo: quella terribile patologia che fa girare stanze, boschi e spiagge con le braccia alzate, mantenendosi in equilibrio su posizioni improbabili, pur di far segnare quella misera tacca che permette una risicata quanto essenziale connessione e che certifica la nostra esistenza nel mondo.
A fronte di un’overdose da smodata fruizione del mezzo elettronico, l’appello quaresimale a un suo uso contenuto, o quantomeno regolato, rappresenta più un’esortazione accorata a riprendere il contatto con noi stessi che un fioretto penitenziale. Del resto, una breve e onesta ricognizione nelle nostre cattive abitudini non può che confermare la necessità di “staccare” prima che sia tardi. Dopo gli avvisi ai concerti anche all’ingresso di alcune chiese, accanto all’invito a vestirsi in modo consono all’ambiente, comincia ad apparire un cartello garbato e persuasivo: Dio ti può cercare in molti modi, ma ti garantiamo che non sarà mai sul cellulare, quindi per favore, almeno a Messa spegnilo.
Anche perché, dicono, il campo in Paradiso è solo quello ricoperto di gigli.

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