Di M. M. Nicolais
La fede bussa anche alla porta del non credente. Come si definiva Giorgio Gaber, che però, in un’intervista dichiarava: “La fede, mi ha detto una volta un prete, è come una ferita che ci portiamo dentro e che dobbiamo cercare di rimarginare, pur sapendo che ciò non accadrà mai. Mi sta bene”. Come la “ferita” della fede si nasconde nel fondo del cuore del non credente, così, reciprocamente, in ogni credente c’è un non credente. Ed è in questa sorta di “contaminazione” reciproca tra paradigmi, o meglio tra esperienze concrete di vita, percorsi a ostacoli, cadute e piccole, quotidiane resurrezioni che si gioca oggi la capacità di comunicare la fede nella società liquida. Portando il Vangelo nelle “periferie”, come non si stanca di esortarci a fare Papa Francesco. Senza salire in cattedra, ma con la disponibilità a sprofondare anche nelle “notti” più oscure dei nostri compagni di viaggio, sentendole anzitutto come nostre, prima di cercare insieme di risalire.
“Dobbiamo imparare e insegnare a cercare Cristo là dove sembra non esserci e la fede dove, almeno a prima vista, non è”. È la “specie di esperimento” che Giuseppe Savagnone esorta a fare, nel suo nuovo libro, “Il Vangelo nelle periferie” (Edb), con un cambio di passo che ancora appare rivoluzionario nella Chiesa italiana, in tutte le sue diverse articolazioni, ma che come apripista può vantare il primo Papa venuto dalle “periferie” del mondo. Che nel documento programmatico del pontificato, l’Evangelii gaudium, scrive: “A volte, ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi utilizzano e comprendono è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo. Con la santa intenzione di comunicare loro la verità su Dio e sull’essere umano, in alcune occasioni diamo loro un falso dio o un ideale umano che non è veramente cristiano. In tal modo, siamo fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza. Questo è il rischio più grave”.
Tutti siamo chiamati in causa, nessuno escluso, non solo nel cambiare il nostro linguaggio e aggiornandolo, ma nella responsabilità più generale di abbandonare quell’idea di Chiesa, schizofrenica, basata su una duplice frattura. La prima è quella tra discorsi e fatti reali, come se nella nostra pastorale – a mo’ di certi antichi palazzi – ci fossero due piani: il “piano nobile”, con i balconi spaziosi, le ringhiere in ferro battuto, dove si svolgono i convegni e si pubblicano le lettere e i piani pastorali, con analisi profonde, denunce coraggiose, magnifici progetti. E il “piano terra” della vita ordinaria, quello della pastorale delle parrocchie, dei cristiani “comuni”, pronti a sottoscrivere gli insegnamenti del Vangelo e della dottrina della Chiesa ma di fatto convinti che nella vita reale siano inapplicabili. La seconda frattura è quella tra la sfera della vita “profana” dei fedeli e ciò che diventano quando entrano nel recinto “sacro” del tempio, dove spesso il proprio vissuto viene messo tra parentesi.
“Oggi il problema è trovare parole nuove, comuni agli uomini e alle donne – soprattutto ai giovani – del nostro tempo”, la tesi di Savagnone. Parole e linguaggi delle “periferie dell’esistenza”, che abbiano l’umiltà d’imparare anche dai percorsi tracciati da quelle vite apparentemente più “lontane” dai nostri recinti. “È urgente tradurre il Vangelo in queste nuove lingue, imparandone non solo il lessico, ma anche le grammatiche e le sintassi”, le strutture di pensiero sottostanti alle parole.
Oggi il distacco tra il cristianesimo e le nuove generazioni non deriva dal rifiuto, ma dalla noia. Se la parrocchia vuole essere Chiesa “in uscita”, e non più “stazione di servizio” di riti e sacramenti, deve essere un luogo di dialogo e di accoglienza, dove “anche chi già crede non cessa di essere alla ricerca, e anche chi cerca ha qualcosa da donare”. E alla fine, non si sa più chi evangelizza chi: è un’evangelizzazione reciproca.
0 commenti