Di Maria Sofia Tozzi

Quando sei costretto a fuggire dalla tua terra, cerchi un rifugio nel luogo più vicino alla tua casa, per poterci tornare non appena la situazione migliora. Questo pensiero ha spinto moltissimi siriani, soprattutto provenienti dal Sud-Ovest della Siria, a stabilirsi a Irbid, cittadina della Giordania settentrionale. I chilometri che li separano dalle loro case sono soltanto una cinquantina, ma è uno spazio impossibile da percorrere all’indietro. Ascolto i miei vicini di casa siriani fare questi discorsi e inevitabilmente li associo ai ricordi che in questi mesi di permanenza in Giordania ho ascoltato molto spesso da quei palestinesi che vivono qui e i cui genitori, molti anni fa, hanno fatto lo stesso ragionamento, quando sono fuggiti dalle loro case in Palestina nel corso della guerra arabo-israeliana del 1948: hanno creduto che stabilirsi in Giordania fosse la soluzione migliore, così da poter tornare il più presto possibile. Ora la maggior parte di quei palestinesi è morta e i loro figli e nipoti, che sono nati qui, non hanno mai visto la loro terra e non hanno il diritto di tornare nelle case dei loro padri.
La vita difficile. Ho cercato di capire cosa significa essere un rifugiato siriano in Giordania: una vita complicata fatta di ingressi illegali, dietro pagamenti di ingenti somme, e dislocazione in campi profughi. Per uscire da un campo è necessario che un cittadino giordano faccia da garante. Però, anche fuori dal campo profughi, è difficile condurre una vita normale: nessuno vuole comprare una casa, perché mettere radici significherebbe perdere la speranza del ritorno. Allora preferiscono un affitto esoso, nonostante l’innalzamento dei prezzi: proprio a loro è attribuito il fatto che gli affitti siano aumentati, oltre al rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità, come la frutta e la verdura. Ma i siriani, disperati e in fuga dalla guerra, si sono adattati a pagare qualsiasi prezzo pur di avere un minimo di stabilità. Inoltre a loro in Giordania non è permesso lavorare, almeno non legalmente. Così vengono sfruttati per i lavori a nero e solo i più fortunati hanno un membro della famiglia che lavora all’estero, riuscendo così a ricevere denaro per il proprio mantenimento. È frequente purtroppo anche trovare bambini per strada che chiedono l’elemosina o donne che girano periodicamente di casa in casa, chiedendo denaro o cibo. L’integrazione dei siriani in Giordania è difficile e di certo non favorita dalle autorità che, per esempio, hanno disposto che i bambini siriani non frequentassero le stesse lezioni scolastiche dei giordani, ma è stato attivato per loro un corso pomeridiano. Quanto all’università, è difficile per molti continuare gli studi, perché non riescono a ottenere i documenti dalle università della loro patria o perché le rette delle università giordane sono davvero troppo costose. Alcuni non posseggono neanche il passaporto quindi non possono lasciare il paese in cui si trovano.
“Lì c’è Deraa, casa nostra”. Tanti sono i profughi e diverse le loro storie, ma tutti hanno un denominatore comune: la presenza di un “martire” in famiglia. Sono fuggiti mentre le loro case venivano bombardate, sono fuggiti per cercare di proteggere i loro figli, ma dopo la fuga c’è sempre qualcuno che manca all’appello e spesso sono i più piccoli a cadere, come è successo alla mia vicina di casa che, un anno fa, ha perso il penultimo dei suoi figli, di soli 10 anni. Nella fuga, lei e i suoi bambini sono stati sorpresi da un bombardamento, lei stessa è rimasta ferita e ha saputo solo dopo alcune settimane che suo figlio era morto. Sono stata con lei a visitare il cimitero dove è sepolto il bambino, vicino all’ospedale statale di Ramtha, a 10 km dal confine. È un piccolo cimitero siriano. Come previsto dalla religione islamica, che rifiuta le sepolture sopra il livello del suolo, tutte le tombe sono a terra. Ogni tomba ha una lapide, molto semplice, senza foto, incisa solo col nome del defunto, data e luogo della morte. Nell’osservare queste sepolture mi balza all’occhio che spesso manca la data di nascita e alcune tombe sono colorate con i colori della bandiera della rivoluzione siriana. Nel leggere la data di morte ci si accorge che in molte è la stessa, segno tangibile di una strage frutto di un bombardamento o di un’esplosione. A poca distanza dalla tomba del figlio della mia vicina ci sono sei tombe, una accanto all’altra, di cinque ragazze e un ragazzo, tutti fratelli. La mia accompagnatrice mi dice che, nella sua ultima visita al cimitero, ha incontrato i genitori di quei ragazzi. La coppia aveva otto figli, ne sono sopravvissuti due. Nel piccolo cimitero siriano in terra giordana, la guerra sembra amplificarsi ancora di più e diventare interminabile, ma poi rimango stupita dalla forza e dalla speranza della mia vicina di casa che, avvicinandosi e indicando un punto alla nostra destra, mi sussurra: “Lì c’è Deraa, casa nostra. Se Dio vuole, ti inviterò in Siria, quando tutto questo sarà finito!”.

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