Di Nicola Salvagnin
“Con la cultura non si mangia”, disse qualche anno fa l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Aveva ragione, aveva torto. Ragione perché, “rebus sic stantibus”, non si tratta di opinione ma di resoconto: in Italia la cultura è assai slegata dal concetto di ricavo economico. E certo un museo di provincia non può competere, quanto a produzione di ricchezza e di posti di lavoro, con un piccolo distretto industriale situato in quella provincia.
Aveva torto, perché con la cultura si può mangiare e pure bene; perché l’Italia è uno dei più grandi giacimenti culturali del mondo (il più grande?). Perché non possiamo fare che meglio di ora, creando appunto più ricavi e più occasioni di reddito. Ne è convinto pure il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, che ha messo sul piatto una serie di pietanze per poter cucinare piatti ben più appetitosi degli attuali: sgravi fiscali consistenti per i privati che vogliano investire risorse nel settore, a cominciare dai restauri e recuperi immobiliari; il cambiamento di un sistema tariffario che in buona sostanza ha regalato troppo negli anni (taglio ai biglietti gratuiti – in Italia uno su tre staccati – e alle agevolazioni); valorizzazione dei punti forti attrattivi (Colosseo, rovine di Pompei, Museo degli Uffizi) con orari più dilatati.
Franceschini può solo fare, perché la situazione è quasi disastrosa. Ci sono città come Parigi che attraggono decine di milioni di turisti, per non parlare di Londra e di new entry come Praga o l’orrenda Berlino. Flussi di visitatori si stanno riversando nei Paesi Baltici, a Istanbul, pure in una Scandinavia che, a parte i paesaggi… ma non a Napoli, Palermo, Catania o Lecce. Il patrimonio artistico siciliano è “respingente”; la Reggia di Caserta avrebbe i numeri di Versailles se solo fosse a Versailles; i Bronzi di Riace arrugginiscono; pure un unicum mondiale come Pompei ha molti meno visitatori – e pure trattati male – di un qualsiasi parco divertimenti per bambini.
Ma la lista delle doglianze è infinita, c’è poco o niente che funziona bene, lo sappiamo perfettamente noi italiani. Ma ciò che funziona bene, fa immediatamente intravvedere le potenzialità che la cultura ha sul fronte economico, se è poi combinata con il territorio, con il made in Italy, con un’accoglienza degna di un grande Paese turistico. Le statistiche dicono che un euro investito nella promozione culturale genera un indotto di 1,7 euro. La convenienza c’è tutta già con la situazione triste di oggi.
Ma la rondine di Franceschini non fa primavera se – come al solito – viene lasciata volare da sola. Cioè: i turisti vanno accolti, coccolati, agevolati, incentivati. Servono trasporti pubblici degni almeno di un Paese del Secondo mondo; catene alberghiere diffuse e standardizzate (l’hotel boutique è bello, ma piccolo, non collegato, non considerato dai grandi flussi del turismo straniero); una promozione all’estero gestita in modo unitario, con marketing diversificato ed efficace, non lasciato a consorzietti locali che pubblicizzano un territorio con scarsi mezzi e zero capacità; orari e servizi che stimolino, non che ostacolino.
Infine il mondo digitale deve entrare nel mondo culturale. Il provincialismo e l’improvvisazione di cui ci vantiamo, sono proprio gli ostacoli maggiori che dobbiamo superare per non dare ragione alle parole dell’ex ministro Tremonti.
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