charlieDi Marco Testi

Cento anni fa nasceva Charlot, uno dei personaggi più celebri della modernità: non, si guardi bene, del cinema, o almeno non solo del cinema. La creazione di Charles Spencer Chaplin, che aveva allora 25 anni, appartiene di diritto alla storia a partire dal 1914, perché ha influenzato il cinema del dopo (si pensi a Jerry Lewis, e da noi a Benigni, per non parlare del primo Moretti e del Nichetti degli esordi), ma anche l’immaginario collettivo, la letteratura, l’arte, la musica.
L’hobo – il vagabondo – cantato da Dylan, ma prima ancora da Woody Guthrie e dai bluesmen del Delta, è una variante del tipo Charlot, sempre in giro, sempre pronto a sparire all’orizzonte, sempre inguaribilmente povero e solo. Ma con una differenza, che è il segno del genio: Charlot coniuga dramma e risata, comico e umoristico, malinconia e gag: in “Tempi moderni” (1936), satira del taylorismo e delle catene di montaggio (Chaplin venne accusato per questo di simpatie comuniste), l’operaio, dopo una serie di gag che hanno fatto la storia del cinema, impazzisce e perde il posto. Ma se Charlot verrà dichiarato padre di molti comici a venire, quel saltabeccante quasi gentiluomo consegnato a cocenti ma inevitabili delusioni d’amore (il vagabondo non può mettere radici, anche quando vorrebbe) viene da lontano.
Come non riandare al padre di tanti “inetti” novecenteschi, quel Dostoevskij che ci presenta spesso un personaggio dai molti volti, il vagabondo che gira da solo per le strade notturne, che si illude, ben sapendo che è male, di poter essere amato, nelle “Notti bianche”, o il gaffeur autolesionista che inciampa praticamente nella vita delle “Memorie del sottosuolo”, destinato a far scappare, stavolta volontariamente, l’amore. E soprattutto “l’idiota”, uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi, colui che attraversa le esistenze altrui proponendo una insostenibile bontà che sembra essere ai confini della follia. Il principe Myskin è un altro collezionista di apparenti gaffes, ma è anche portatore di un messaggio destabilizzante: l’assoluta libertà dai meccanismi del potere. Tanto che alcuni hanno visto nel nobile vagabondo l’immagine del Cristo oggi, che sarebbe di nuovo non capito e deriso. Colui che sembra l’inadatto a vivere rivela profondità abissali, e questo dovrebbe far pensare. Gli incapaci a vivere che rampollano da quel messaggio, così diverso dal “wanderer”, camminatore, Baudelaire, povero ma aristocratico, idealista ma corrotto, sono quasi coevi di Charlot: il pirandelliano Mattia Pascal, un altro “vagabondo”, interiore e non, che scappa, stavolta da se stesso, è del 1904, anche se il siciliano creerà una stupenda figura di vagabondo-musicista un anno dopo Charlot nel romanzo “Si gira”; Zeno Cosini, di professione ricco camminatore notturno alla ricerca di sé e soprattutto di una moglie (che troverà, gaffe dopo gaffe) protagonista della “Coscienza di Zeno” di Italo Svevo è del 1923, vale a dire nove anni dopo la nascita di Charlot. I camminatori – interiori o reali – i reietti o perdenti, i consegnati alla solitudine e ad un viaggio talvolta infero, dell’Europa del tempo sono del 1916, anno delle “Metamorfosi” di Kafka, o del 1922, quando vede la luce l’ “Ulisse” di Joyce, anche questo diario di un solo giorno di due camminatori nelle strade di Dublino. Per non parlare di una “vagabonda” al femminile, che gira inquieta le strade della città nel giorno del suo compleanno, la signora Dalloway di Virginia Woolf, che è del 1925.
Camminare e inciampare nelle cose della vita sembra il principale compito di questi viaggiatori del Novecento, dall’Ulrich dell’ “Uomo senza qualità” di Musil, troppo intelligente per riuscire nella vita, che viene concepito alla fine degli anni Venti, come anche gli inetti di Federigo Tozzi, autore di primo piano nel nostro Novecento, incapaci di stare stabilmente nella vita comune perché troppo sensibili.
Altri se ne vanno sul serio, come lo scrittore Hermann Hesse, attirato dalla spiritualità buddista, che indicherà nel viaggio senza legami con le cose (quello suo e quello del personaggio Siddharta) la soluzione del problema del malessere dell’uomo novecentesco, e siamo nel 1922.
Il vagabondo Charlot rimane però più vicino ai poveri dell’America di primo Novecento, e a quelli moltiplicati dalla Grande Depressione, gente che aveva fame realmente, quelli che con Dylan potevano veramente dire al primo che incontravano “Sono un vagabondo solo e stanco/ senza famiglia e senza amici/ dove incomincia la vita di un altro/ è la che finisce la mia”.

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