schiavituDi Giulio Albanese
Il tema della schiavitù ha costantemente segnato la Storia dell’umanità, fino ai nostri tempi. Questo fenomeno, a dir poco aberrante, rappresenta, peraltro, un fattore altamente destabilizzante nelle relazioni umane, un po’ a tutte le latitudini. È per questa ragione che Papa Francesco ha scelto come tema della Giornata Mondiale della Pace 2015 – che si celebrerà, come di consueto, il 1° gennaio del prossimo anno – uno slogan ad effetto: “Non più schiavi, ma fratelli”. Al momento, non disponiamo che di alcune anticipazioni, ma non v’è dubbio che le implicazioni evangeliche in riferimento a questa orribile tratta rappresentano, come si legge in una nota diffusa dal Pontificio Consiglio Justitia et Pax, “una piaga gravissima nella carne di Cristo! Per contrastarla efficacemente occorre innanzitutto riconoscere l’inviolabile dignità di ogni persona umana, e inoltre tenere fermo il riferimento alla fraternità, che richiede il superamento della diseguaglianza, in base alla quale un uomo può rendere schiavo un altro uomo, e il conseguente impegno di prossimità e gratuità per un cammino di liberazione e inclusione per tutti”.
Sono molteplici, a livello planetario, gli abominevoli volti della schiavitù che, misconoscendo il valore della fraternità universale, mina i fondamenti della pace. La maggior parte dei cosiddetti “schiavi moderni” è vittima del lavoro vincolato (bonder labor) in Paesi come l’India, il Pakistan, il Bangladesh e il Nepal. In sostanza si tratta di individui che si consegnano in schiavitù a garanzia di un prestito ricevuto o quando viene ereditato un debito contratto dalla famiglia d’appartenenza. A volte poi capita che si offrano contratti che garantiscano l’occupazione, magari in un laboratorio tessile o in una fabbrica di scarpe, ma una volta giunti sul posto, i lavoratori scoprono d’essere in una situazione coercitiva, privi di ogni libertà di movimento e l’unica forma di retribuzione è il cibo e l’acqua. Il lavoratore è dunque vittima di un sistema incentrato sul contratto che viene utilizzato come esca, attivando un vero e proprio meccanismo di sudditanza. Questo fenomeno è riscontrabile particolarmente in Thailandia e in alcuni Paesi arabi.
Vi è poi la schiavitù incentrata sul possesso che richiama fortemente quella tradizionale. Un individuo diventa schiavo a tutti gli effetti quando viene catturato, nasce in uno stato di cattività o viene venduto al migliore offerente. Ecco che allora lo schiavo diventa un bene di consumo prezioso in vaste regioni dell’Africa settentrionale e occidentale, oltre che in non pochi Paesi arabi. La Mauritania, ad esempio, è certamente la nazione con il più alto numero di schiavi. La società locale è costituita da tre gruppi: gli arabi mori, detti anche “mori bianchi” i quali rappresentano circa il 30 per cento della popolazione; gli afromauri (40 per cento); e gli haratin (schiavi o ex schiavi) che pagano il più alto prezzo a livello di sofferenze. Nonostante la schiavitù sia stata abolita numerose volte in Mauritania, per le migliaia di giovani e meno giovani formalmente liberati, la vita non è affatto cambiata; anche perché, secondo autorevoli fonti della società civile, nessuno si è preoccupato di dirlo ai diretti interessati: gli schiavi, appunto.
Vi sono, naturalmente, anche altre forme di sudditanza, come nel caso dell’Eritrea, dove vige la schiavitù bellica. Centinaia di migliaia di uomini, di donne sono arruolati per decenni nei ranghi dell’esercito che li costringe a realizzare opere pubbliche e a difendere un regime oligarchico, fortemente coercitivo. A ciò si aggiunga il traffico di esseri umani per l’espianto di organi, o la tratta dei migranti che interessa il Mediterraneo e la prostituzione di donne e minori su cui speculano vergognosamente gruppi di potere, approfittando dei tanti conflitti in atto nel mondo e del contesto di crisi economica internazionale. È dunque chiaro che l’obiettivo del Papa è quello di promuovere una civiltà dell’amore, fondata sulla pari dignità di tutti gli esseri umani, senza discriminazione di sorta. Per questo, occorre l’impegno di tutti, nella consapevolezza che essere cristiani significa essere testimoni di una buona notizia senza confini.

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