A tredici anni da quell’11 settembre che sconvolse il mondo con il più grave attentato terroristico della storia, la politica internazionale è nuovamente scossa da un attore non statale che usa la violenza per sfidare tutto il mondo, propagandando una versione radicale ed estrema dell’Islam sunnita. Quando ormai sembrava che con la morte di Osama Bin Laden l’ideologia del fanatismo islamico stesse perdendo rilevanza politica, essendosi mostrata come una strada velleitaria e in definitiva perdente, si riaffaccia l’incubo di uno scontro di civiltà in cui è impossibile ogni tipo di compromesso. In realtà, se ci sono dei punti comuni fra la minaccia portata da Al Qaeda e la situazione attuale, molte sono le differenze.
Simile certamente è il furore ideologico nichilista che muoveva Al Qaeda e che muove adesso l’Isis, un furore che utilizza strumentalmente la religione per porre obiettivi assoluti alla politica, da raggiungere attraverso l’uso della violenza e l’annientamento di ogni avversario. Proprio il fatto che il potenziale annientamento riguardi ogni avversario, chiarisce come non sia in atto uno scontro religioso-culturale fra Occidente cristiano e Oriente islamico, ma uno scontro fra l’Isis e tutto il resto del mondo, inclusi i musulmani sciiti e quei sunniti che non condividono il fanatismo di tale gruppo. Ciò è reso più evidente dalla strategia politico-militare che l’Isis ha scelto, molto diversa da quella di Al Qaeda. I leader di questa nuova formazione hanno compreso che i metodi terroristici possono provocare sgomento, ma non portare a conseguire obiettivi politici duraturi di grande rilievo. Per ottenere simili risultati è necessario un controllo territoriale stabile, non una rete globale impalpabile.
Dunque, l’Isis ha scelto la via della guerra civile più spietata, spazzando via chiunque (cristiano, musulmano, occidentale, orientale) non si conformi al suo progetto intollerante. Da un punto di vista politico-militare e geopolitico, l’Isis non è un nemico temibile. Al momento domina su un territorio prevalentemente desertico, senza particolare valore strategico e senza controllare nessuna risorsa di grande valore. Si tratta di alcune decine di migliaia di uomini dotati di un equipaggiamento moderno che comprende carri armati strappati all’esercito iracheno, ma sono certamente una forza che può essere sconfitta militarmente senza particolari problemi da una coalizione di eserciti statali tecnologicamente avanzati. Certamente, se l’Isis non verrà fermato, in prospettiva il rischio è la capitolazione dell’Iraq, la destabilizzazione della Giordania e soprattutto la morte e la persecuzione di altre migliaia di innocenti.
A ben guardare, è ovviamente questo il problema maggiore: il fatto che un tale messaggio di odio venga lasciato concretizzarsi in cieca violenza contro intere comunità. Non si può non fermare l’Isis perché non ha niente a che vedere con la politica di potenza anche nelle sue versioni più ciniche, ma al contrario esso è la forma concreta che assume la negazione teorica della politica di potenza. È dunque indispensabile che la comunità internazionale faccia seriamente i conti con ciò che sta accadendo fra la Siria e l’Iraq, se non vogliono permettere la nascita di un processo che mina alle basi l’esistenza stessa di tale comunità. Tuttavia, se per fermare le violenze in atto sarà probabilmente necessario ricorrere all’uso della forza, è chiaro che lo sforzo più impegnativo e a lungo termine deve avere carattere culturale. Non solo i leader politici e religiosi, ma ciascuno di noi deve operare quotidianamente e in modo deciso per evitare la propagazione dell’odio. Purtroppo, al momento non tutti i leader religiosi islamici hanno avuto il coraggio di Papa Francesco, alcuni stati arabi continuano a tenere comportamenti ambigui, mentre molti stati europei continuano a disinteressarsi di ciò che avviene oltre i loro confini, senza capire che le idee, anche le peggiori, non hanno confini.
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