ScoziaDi Stefano Costalli

Il Regno Unito è ancora tale. Il referendum che poteva sancire l’indipendenza scozzese ha visto prevalere di un soffio il fronte unionista e molti sospiri di sollievo sono stati tirati a Londra. Alla fine il risultato è stato quello che veniva indicato nei sondaggi di qualche settimana fa e atteso dagli esperti, ma il dibattito politico in Gran Bretagna si è acceso quasi all’improvviso solo nelle ultime due settimane, quando gli istituti di analisi hanno iniziato a rilevare una crescita degli indipendentisti, fino a sorpassare, in alcune proiezioni, la soglia del 50%. A quel punto, la classe politica inglese si è svegliata di soprassalto e ha capito che forse doveva prendere sul serio un’occasione elettorale in cui si decideva “solamente” dell’integrità statale.
Il partito di Alex Salmond, Primo ministro scozzese che ha fortemente voluto il referendum, ha condotto una campagna efficace sul piano comunicativo, senza mai ricorrere al turpiloquio, alla demonizzazione dell’avversario, alla violenza verbale. Per questo motivo, il nazionalismo dal volto buono di Edimburgo è riuscito a farsi ascoltare da una larga parte dei cittadini scozzesi, che vorrebbero più autonomia da Londra in campo fiscale, un welfare più sviluppato e che, come milioni di altri europei, osservano con grande perplessità l’attuale condizione dell’Unione Europea. Se nel referendum fosse stata presente una terza opzione rappresentata da una forte autonomia senza completa secessione, ci sono pochi dubbi che questa avrebbe raccolto un’ampia maggioranza di consensi, e proprio su questo punto ha giocato la campagna comunicativa dei leader politici inglesi, sia conservatori che laburisti. 
Dopo aver sottovalutato la rilevanza del referendum, di fronte ai risultati inattesi degli ultimi sondaggi, David Cameron e Ed Miliband hanno mobilitato tutti i mezzi di comunicazione promettendo una devoluzione di poteri alla Scozia ancora più marcata di quella attuale, mirando a depotenziare la proposta degli indipendentisti e allo stesso tempo spaventando gli elettori scozzesi ed europei con le possibili conseguenze del referendum. In effetti, una delle caratteristiche più evidenti a un osservatore esterno della campagna portata avanti da entrambi gli schieramenti è l’approssimazione e la superficialità con cui un tema così importante è stato spesso affrontato. Nonostante non mancassero in teoria punti importanti da far valere, sia da una parte che dall’altra, hanno prevalso perlopiù tautologie del tipo “dobbiamo restare uniti perché dobbiamo stare uniti”, così come sono rimaste inevase domande cruciali come ad esempio quale moneta avrebbe utilizzato la nuova Scozia indipendente. Insomma, anche nel Regno Unito, come in molta parte dell’Europa, la politica forte, fatta di ideali, vicinanza alla gente e studio approfondito sembra un lontano ricordo. Anche quando si percepiscono le istanze provenienti dai cittadini, si tende spesso alla strumentalizzazione e alla superficialità. La politica sembra spesso reagire alle paure (dell’Europa, delle conseguenze, del presente, del futuro), piuttosto che guidare i cittadini per dominarle e l’economia si conferma la bussola e il centro di ogni dibattito pubblico. 
In ogni caso, il referendum scozzese è stato un’occasione utile per portare nuovamente alla luce malumori che serpeggiano in tante zone dell’Europa e se i leader politici inglesi il prossimo anno vorranno assicurarsi i voti della larga parte di scozzesi favorevoli a una maggiore devoluzione, non è detto che rimanga senza conseguenze anche sul piano costituzionale.

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