Quando Lidia Rolfi Beccaria tornò dal lager di Ravensbrück, campo di concentramento per la “rieducazione” delle prigioniere dove morirono novantaduemila donne, trovò ad attenderla un Paese che non voleva credere a quello che raccontavano i sopravvissuti. Ricordando il suo ritorno in Italia, ha scritto parole terribili: “Alla famiglia non si osava raccontare – perlomeno non subito – quel che avevamo vissuto; eravamo guardate con diffidenza dalla gente. Pensavano: quella torna dalla Germania, chissà come hanno usato le donne in Germania. Taluna tornava persino ingrassata, perché le zuppette che ci davano da mangiare dopo la liberazione – a quasi tutte noi si era interrotte il ciclo mestruale – ci gonfiavano come palloni. Così ci sentivamo dire: Guarda come sei tornata bella grassa, non come noi che qui facevamo la fame; vi nutrivano bene in Germania! V’erano poi i commenti sussurrati dietro alle spalle, e lo svicolare delle amiche che ritenevano sconveniente passeggiare ‘con una che torna dalla Germania’: questo è stato il secondo Lager che abbiamo dovuto vivere tornando a casa, quasi dovessimo giustificarci di fronte all’opinione pubblica”. La prigionia come una colpa da nascondere, la vita salvata per un soffio come una vergogna da scontare. Eppure lei, come altri, non si è piegata alla negazione di quanto è avvenuto, anzi, ha vissuto per raccontarlo, per ricordare a tutti gli abissi della crudeltà umana. Lo ha fatto fino alla sua morte scrivendo libri bellissimi, pieni di dignità e di dolore, ma soprattutto andando a parlare nelle scuole, ai convegni, a conferenze: aggrappata a quell’esile filo della memoria (dal titolo di una delle sue opere più famose) perché non si cancellasse il passato, ancorché scomodo per molti. Si era fatta lei stessa memoria vivente della sofferenza di una generazione, testimone reale e vera.
Come Mario Limentani per l’orrore di Mauthausen, morto pochi giorni fa a 91 anni, tra gli ultimi sopravvissuti alla Shoah. Non si è mai tirato indietro quando lo chiamavano per descrivere a studenti increduli cosa veniva perpetrato da uomini su altri uomini. Perché, in fondo, siamo tutti figli di San Tommaso e non ci bastano i documenti, non ci basta leggere la Storia, non ci basta vedere i documentari in tv. Capiamo meglio quando si ascolta dalla viva vera voce di chi c’era, di chi ha vissuto sulla propria pelle l’atrocità della prigionia, della tortura, della schiavitù. Capiamo perché “tocchiamo” la realtà grazie alla trasmissione viva dell’esperienza di chi la sta narrando (e quindi rivivendo) di fronte a noi. Mettiamo davvero il dito nella piaga, vediamo con gli occhi di chi parla.
Lidia, Mario e tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza della deportazione e dei campi di sterminio sono un po’ come le persone-libro di Fahrenheit 451: costituiscono la memoria dell’umanità, patrimonio della comunità. Ma non c’è solo da preservare la memoria della Storia. C’è anche da salvare, nel piccolo ma non meno importante, la memoria delle tante storie della vita degli anziani che abitano il nostro vivere. Il racconto dei nonni è quello che riporta a un’epoca in cui non c’era nulla di quello che i nipoti conoscono ora e, in molti casi, danno per scontato e per acquisito. E’ attraverso i ricordi dei nostri vecchi che si tramanda la vita famigliare e la vita quotidiana di un tempo che non c’è più. E’ attraverso il novellare degli anziani, spesso ripetitivo è vero, che si rivela il tempo della speranza e della fiducia, quella che fu e quella che sarà. Così, nello stesso modo, rammentando le disillusioni è possibile persino trovare il punto d’incontro tra chi scalpita per sbagliare da solo e chi vorrebbe proteggere da un errore già commesso. Un’altra vita, un altro passato.
“Un popolo che non ha memoria non ha futuro” ha detto Papa Francesco celebrando i nonni. Ecco, pensiamoci: chi si farà carico di tramandare, conservare e rievocare cultura e tradizione di un popolo quando anche l’ultimo salvato, tra i molti sommersi, non ci sarà più?
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