Avviso ai naviganti nelle stagnanti acque dell’economia e della società italiana: cambiare si deve, l’attuale status quo è assolutamente insostenibile. Lo dicono i numeri: sette anni di recessione senza tregua, unico Paese occidentale in una simile situazione; un quarto della produzione industriale perduta e, con essa, milioni di posti di lavoro bruciati o mai attivati.
Un numero su tutti: quasi sei milioni e mezzo di italiani o non hanno (più) un lavoro, o ne hanno uno precario e sottopagato. Ma il dato più preoccupante è che la maggior parte di questi “italiani retrocessi” è giovane, ha meno di trent’anni: la crisi sta bruciando il loro futuro. E con il loro, quello di tutti gli altri italiani.
Cambiare dunque si deve. E non perché ce lo chiede da tre anni l’Europa, che pure ci ha imposto cambi di governi e dolorose riforme previdenziali. Non perché il debito pubblico si avvicini alla soglia del non ritorno, dell’impossibilità tecnica di farvi fronte. Non perché la finanza mondiale sta come un avvoltoio seduta sopra la labilità del nostro spread, in attesa della nostra caduta.
Semplicemente perché sette anni di pantano non sono più sopportabili. E per tirarcene fuori dobbiamo muoverci, cambiare.
Lo hanno fatto tutti, noi italiani no. E la ragione è semplice: c’è un tal coacervo di interessi particolari, anche minimi, che soffocano una visione di bene comune. Chiaramente è una cosa da mettere in conto in epoca di cambiamenti, ma il particolare italiano è dato dalla pervicacia quanto dall’inerzia delle posizioni di arrocco.
Si discute di una sacrosanta riforma della giustizia ma si scatena l’inferno se solo si vogliono toccare le (abbondanti) ferie dei magistrati; si invocano più soldi nelle tasche degli italiani ma lo Stato non cede di un millimetro il proprio perimetro, e gli imprenditori agitano le sciabole alla sola idea di lasciare una parte del Tfr in busta paga. Si applaude in coro all’ingresso del merito nell’insegnamento, solo che poi questo non deve essere valutato in alcun modo.
Si straparla di lavoro e lavoratori, ma ci si ferma – per l’ennesima volta – davanti ad un vessillo ideologico quale l’art. 18. Ci si cela dietro a questo totem per nascondere piccoli interessi di parte e visioni della società ferme alla metà del secolo scorso.
È questo che stupisce – soprattutto all’esterno – della società italiana: una grande voglia di cambiare che si impantana immancabilmente alla prima fermata dell’autobus, al primo interesse particolare che viene messo in discussione.
Fa specie riflettere su cosa stia guardando il resto del mondo, quando punta l’occhio dentro le nostre cose: se stiamo facendo qualcosa, o stiamo fingendo di farla! A questo punto di masochismo collettivo ci siamo ridotti?
Il lavoro è per questo uno snodo decisivo. Abbiamo creato un’occupazione squilibrata tra un fortino di ipertutelati da un groviglio di norme e diritti, e un piazzale sempre più affollato di gente espulsa dal fortino, o che non riesce ad entrare, o che deve accontentarsi delle briciole. Pessimo frutto di un sistema di relazioni industriali che non ha saputo affrontare il cataclisma della globalizzazione: mentre il mondo cambiava pelle, noi non riuscivamo ad affrontare il comma due dell’art. 18…
Discutiamo su come cambiare, ma facciamolo. Il mondo cattolico da tempo ha detto la sua – vedi il rapporto “Per il lavoro” nato nella fucina del progetto culturale della Chiesa italiana – per dare all’occupazione italiana nuove caratteristiche che concilino il bisogno di stabilità dei lavoratori, l’esigenza di trovare un’occupazione per chi non ce l’ha, con la flessibilità richiesta da un mondo delle imprese che si deve misurare su scala globale. Creare più posti di lavoro presuppone di realizzare condizioni migliori per fare impresa favorendo così gli investimenti privati.
Inutile appare, in queste ore difficili, il giochetto di schierare i credenti (compresi i loro pastori) su questa o quella barricata. Sulla sponda del governo perché non si può non essere “riformisti” o su quella dei sindacati perché “strenui difensori dei diritti” purchessia. Non funziona così. Ciascuno si assuma le proprie responsabilità. E torniamo a ripetere: nella situazione data, ciascuno valuti il jobs act (con tutte le sue ricadute) alla luce del bene comune. Cioè del bene di tutti e di ciascuno. Di ciascuna donna e di ciascun uomo. E soprattutto di ciascun giovane di questo benedetto Paese.
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