“La maggior parte della popolazione – a Juba come nel resto del Paese – è una vittima di quel che succede, non ha possibilità di far sentire la sua voce o di intervenire in qualsiasi modo” per fermare il conflitto. Elisabetta d’Agostino, rappresentante dell’Ong italiana Comitato cooperazione medica (Ccm) in Sud Sudan, parlando con il Sir riassume così la situazione nello Stato dell’africa orientale, che da dicembre vede scontrarsi le truppe fedeli al presidente Salva Kiir e gli uomini del suo ex vice Riek Machar. Da nove mesi l’organizzazione regionale Igad è impegnata a mediare tra le parti, ma le risoluzioni uscite dai colloqui non sembrano aver cambiato la situazione sul terreno.
Colloqui sospesi. Sabato scorso le trattative sono state sospese – per almeno dieci giorni secondo fonti interpellate dalla stampa locale – per permettere ai mediatori di parlare direttamente con i leader delle due fazioni sui punti che restano in sospeso. Le grandi linee su cui costruire una pace sembrerebbero acquisite: riorganizzazione in senso federale del Paese e introduzione della figura di un premier – da individuare, nella fase transitoria, tra i ribelli – in aggiunta a quella del presidente della Repubblica. È quando si scende nei particolari, però, che emergono le differenze tra il campo di Kiir e quello di Machar: l’ex vicepresidente vorrebbe che al primo ministro fosse affidata l’effettiva guida dell’esecutivo, limitando così i poteri del capo dello Stato. Una condizione, naturalmente, respinta da Kiir. Stessa contrapposizione sulla questione del federalismo: d’accordo sul principio, le delegazioni si dividono sull’entità dei poteri che dovrebbero essere concessi ai singoli stati e sui tempi dell’applicazione dell’accordo. Inoltre Machar vorrebbe, al contrario del governo, che le suddivisioni esistenti siano riviste, creandone di nuove.
Emergenza sfollati. Mentre in Etiopia i contendenti trattano, sul terreno si accusano a vicenda di aver rotto il cessate-il-fuoco formalmente in vigore da gennaio, che in realtà non ha impedito il verificarsi – negli scorsi mesi – di nuovi scontri e massacri. Le aree al centro delle ostilità sono sempre le stesse: lo Stato del Jonglei, dove si trova l’importante città di Bor, e quelli di Unity e Upper Nile, che custodiscono i pozzi petroliferi, grande ricchezza del Paese. A farne le spese sono i civili: “Fuori dalla capitale la situazione rimane critica: noi lavoriamo in una delle aree dove la pressione è più forte a causa degli sfollati, e le condizioni non sono cambiate negli ultimi mesi, perché queste persone vengono dalle zone dove il conflitto continua”, testimonia Elisabetta D’Agostino. Nella regione in cui opera Ccm, lo stato dei Lakes, ci sono circa 130mila persone che non hanno accesso a nessun tipo di risorse tranne quelle dell’assistenza umanitaria. Sono arrivati dagli stati di Jonglei e Unity attraversando con mezzi di fortuna il fiume che segna il confine. “Si sperava che in questa fase alcune delle famiglie potessero tornare nelle loro contee di origine – continua la cooperante italiana – ma così non è stato”.
Insicurezza personale ed economica. Il clima è “d’attesa, si cerca di capire se le elezioni anticipate di cui si parla da tempo potranno tenersi e se la situazione si risolverà, ma il timore è che il conflitto riprenda”, aggiunge. Nella capitale, la situazione non è migliore: la guerra ha portato con sé un aumento della criminalità. In città, testimonia D’Agostino, “ci sono attacchi quotidiani e furti – ad esempio di auto – persino ai danni delle ong”. “Anche economicamente il conflitto ha lasciato degli strascichi – prosegue la responsabile di Ccm – e c’è un rischio forte per quanto riguarda la sicurezza alimentare: le coltivazioni sono state abbandonate a causa della guerra e c’è il pericolo che ci siano carenze nei prossimi mesi, che sono quelli della stagione secca”. Di prospettive, ammette, “purtroppo non se ne vedono molte, c’è una situazione di stasi che il conflitto ha peggiorato: mancano tutte le principali infrastrutture in termini di strade, di acqua, di sistemi sanitari, di elettricità e non sembra che in questa direzione si stia muovendo nulla”. “Anche quel poco che si faceva da parte delle autorità – conclude – è finito con il conflitto e le operazioni sono diventate più difficili e impegnative per le stesse ong”.
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