Nel tormentato autunno di questo anno di persistente recessione ritorna lo sciopero: la Cgil ha indetto lo sciopero generale per il 5 dicembre. La prima iniziativa di protesta, con contorno di scontri e tensioni in diverse città italiane, ha coagulato forze diverse: non solo il sindacato promotore, ma Cobas, centri sociali e varie espressioni dell’arcipelago antagonista. È lo “sciopero sociale”: un vecchio e nuovo contenitore, in cui ci sono le rivendicazioni sindacali, la rivendicazione del lavoro, ma c’è anche l’espressione del malessere sociale dei precari e dei non garantiti, c’è la protesta per la protesta, e c’è anche la politica, il tentativo di inserirsi nella confusa ristrutturazione del quadro politico in atto.
Si tratta di obiettivi e di interessi diversi, secondo logiche e storie diverse. E comunque bisogna essere chiari. Perché basta poco per soffiare sul fuoco, in questa Italia ferma e così aggiungere tensione a tensione: non mancano segnali preoccupanti, con studiosi di diritto del lavoro nel mirino. Mai più! Dunque nervi saldi, per reprimere con decisione tutte le tentazioni violente, le scorciatoie, le speculazioni.
Nervi saldi dunque, ma anche barra dritta, perché dobbiamo seriamente interrogarci sulle prospettive e sugli investimenti da mettere in atto. È l’unico modo efficace per prendere sul serio le ragioni di un malessere che, proprio in un’Italia ferma, sembra moltiplicarsi ed interessare strati sociali, generazionali e aree geografiche diversi e sempre più estesi.
Qualche giorno fa, in occasione del suoi ottant’anni, Carlo De Benedetti, uno degli azionisti di riferimento del progressismo italiano, in un’intervista al “Corriere della Sera”, ha dichiarato, papale papale: “La distruzione del ceto medio creerà una società con pochi ricchi, molti poveri e molti eroi che cercheranno di costruire una famiglia con 1500 euro al mese”. Certo, non è solo un passaggio italiano, ma europeo, con la prospettiva di “una stagnazione secolare”. Ma in Italia, per tanti versi, le cose sono più acute.
La vera politica, la politica di cui si chiede il “ritorno”, o addirittura “il primato” non può che partire dalla realtà. Non per prenderne supinamente atto, ma per indicare delle strade.
Si possono articolare fiumi di retorica, indicare capri espiatori o specularci sopra. Oppure ci si può mettere al lavoro.
In Italia siamo ancora indecisi, nonostante tanto lavorio di progettazione e di discussione. Perché non possiamo non fare i conti con il materiale che abbiamo a disposizione. E non è facile articolare in modo virtuoso il nostro pluralismo, ovvero la forma peculiare della nostra società. Che così rischia di rifluire verso i due vizi, opposti e paralleli, la frammentazione conflittuale o il compromesso occulto. Ovvero, ciclicamente, le ragioni della nostra decadenza.
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