L’epigrafe de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia recita testualmente “…come la civetta quando/di giorno appare. Shakespeare, Enrico VI”.
La citazione scespiriana è stata interpretata comunemente come una allusione esplicita al contenuto del libro: morti cruente, simboli mafiosi, atti criminali che hanno in qualche a che fare con la morte data o subita. In realtà, la citazione sciasciana – come di solito avviene nelle opere dello scrittore siciliano – assume una importante funzione paradigmatica: non è un ornamento esteriore del testo; al contrario, racchiude ed enuclea una profonda valenza educativa e civile, come è abituale costume nell’autore. Il verso è tratto dall’Enrico VI di Shakespeare.
Nel dramma (Parte III, atto V, scena IV), dopo il discorso con cui la regina Margherita incoraggia i suoi uomini a combattere, nonostante le perdite e le avversità, Somerset commenta: “E chiunque non sia pronto a combattere per l’inverarsi di codesto auspicio, che se ne torni a casa e vada a letto; e quando s’alzi e se se ne vada in giro, sia motivo di scherno e meraviglia a chi lo incontri, come un barbagianni che si veda volare in pieno giorno”. (Shakspeare, Enrico VI, Parte III, Atto V, scena IV) Somerset intende stimolare l’amore per la patria, a costo della vita. Chi si macchierà della colpa della vile rinuncia sia oggetto di scherno e di ludibrio, quando avrà il coraggio e anche l’arroganza di farsi vedere in giro.
Alla stessa stregua di un evento inusuale e perciò foriero di gravi conseguenze come il volo della civetta, uccello predatore notturno, che scompostamente e in un ambiente non congeniale ai suoi mezzi si cimenta in una comparsa ridicola, perché avvenuta fuori dalle aspettative degli uomini.
Ora, con la scelta di questa epigrafe Sciascia aveva l’intenzione esplicita di creare una evidente analogia tra il discorso di Somerset che rimprovera i suoi seguaci e una indiretta contestazione dei cittadini-lettori che, dopo avere letto il suo libro e dopo avere conosciuto nella sua interezza il problema complesso della mafia, preferiscono adagiarsi nella mera contemplazione dell’esistente, chiudere gli occhi davanti alla verità, continuare a vivere come se nulla fosse accaduto. Lo scrittore, figlio del “secolo educatore” ha fatto la sua parte: si è addentrato nei meandri segreti dell’organizzazione criminale, ne ha svelato gli intrecci innominabili, ha messo a fuoco la crudeltà e la disumanità dei gesti criminali. Spetta ora ai lettori essere capaci di seguire lo scrittore nel suo viaggio verso il senso della civiltà e del bene comune. Nessuno può tirarsi indietro, perché poi potrà essere oggetto di scherno, lui stesso, come “la civetta quando/di giorno appare”.
Questo passaggio contenuto in una delle prime opere di Sciascia può essere adottato come simbolo della coscienza, muta ed assente, dello scrittore, ormai da venticinque anni.
L’assenza venticinquennale di Sciascia non è stata colmata da nessuno. Non ci sono scrittori che possano arrogarsi il ruolo di epigoni dello scrittore racalmutese. Sciascia era ed è unico. Il suo ruolo nella complessa società contemporanea era duplice: di scrittore, ma soprattutto di fustigatore della corruzione, dell’immoralità, dello scarso senso civile.
La sua visione politica e sociale era pessimistica: la palma va al Nord. La mafia emigra verso il Nord, dove più cospicui sono gli affari e le possibilità di guadagni illeciti. I libri costituivano l’onda lunga del suo pensiero e della sua riflessione. Ma gli interventi polemici sui giornali o nelle interviste televisive comprendevano sempre un’analisi puntuale, argomentata, sottile di vari problemi sociali, politici, di costume, letterari.
Egli non si spendeva con superficialità e con improvvisazione: sembrava quasi che dietro il suo pensiero si celasse il ragionamento sottile, l’esprit de finesse, come se le parole scaturissero da una lunga sedimentazione culturale.
Questo era Leonardo Sciascia: aprire le menti all’acutezza e alla ponderazione; rivolgere lo sguardo sui particolari trascurati, per segnalarne la portata e l’importanza; percorrere i sentieri impervi della verità che spesso diventa ostica, ma poi dà “vital nutrimento”, come dice Dante; indicare i sentieri della bellezza letteraria ed artistica per auspicare che possano far crescere il mondo nel bene.
E per realizzare questi compiti civili era costretto diventare da “homme de lettre” “pesce volante”, secondo la famosa definizione volterriana dell’homme de lettre, che come pesce volante è oggetto di aggressione da parte degli uccelli, che non lo ritengono affine alla loro specie; d’altro canto anche i pesci rifiutano quel mostro e lo allontanano. Allora l’homme de lettre è inviso a tutti; unicamente perché dice la verità. La scomodità dell’intellettuale.
I nostri sono, invece, tempi di conformismo e di piaggeria. Non è gradita la voce fuori del coro; è meglio che il coro sia sempre compatto ed omogeneizzato. Sciascia non si è speso – per ragioni naturali – nell’esame critico di questi venticinque anni della sua assenza – dalla vita. Solo fuorvianti anacronie possono immaginare quello che lui avrebbe pensato del berlusconismo, dei talk show sulla politica, dei vari pollai mattutini e serali, durante i quali esponenti politici mediocri e disinformati agitano il terrorismo verbale e tenorile per coprire la voce degli avversari. Ormai, i responsabili della comunicazione politica non si rendono conto che sono pochi quelli che hanno la volontà ferrea e la pazienza di Giobbe per resistere fino in fondo. Anche il servizio pubblico dovrebbe fare a meno di proporre simili, indecorosi programmi di fantomatica informazione politica.
Sciascia – sicuramente – non li avrebbe seguiti!
Ce ne ricorderemo, di Leonardo Sciascia!
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