Le ultime settimane di cronaca italiana hanno registrato forti tensioni nelle periferie delle grandi città riportando al centro il tema dell’integrazione. Fasce di popolazione sempre più consistenti, tra le quali è inevitabilmente presente una forte componente straniera, si ritrovano vittime dell’esclusione sociale. Ciò continua a generare conflitti e problemi, che spesso le istituzioni e la politica fanno fatica ad affrontare e gestire in modo adeguato. Un recente studio della Fondazione “Leone Moressa” (Mestre) ha messo in relazione la condizione socio-economica della popolazione straniera in Italia con i tassi di criminalità e con la presenza o meno d’investimenti pubblici per l’integrazione, al fine di valutare quanto nelle nostre città sia alto il rischio di marginalizzazione e, di conseguenza, di disagio e devianza. Ne abbiamo parlato con Stefano Solari, docente di economia politica presso l’Università di Padova e direttore scientifico della Fondazione “Leone Moressa”.
I recenti studi della Fondazione “Leone Moressa” hanno evidenziato un “rischio banlieue” per le periferie delle nostre città. Quali le ragioni principali?
“La ragione generale è l’aumento delle povertà, che ovviamente riguarda non solo gli stranieri ma anche gli italiani, anche se in proporzione riguarda maggiormente gli stranieri immigrati. In secondo luogo, c’è la nostra incapacità ad affrontare il problema. L’effetto è che i poli urbani agiscono da attrattore di questi ‘nuovi poveri’, perché in generale si ritiene che là vi siano maggiori probabilità di trovare un lavoro o comunque di riuscire a vivere di qualche espediente. Il fenomeno ‘banlieue’, studiato già da tanti anni nella sociologia e nelle scienze sociali, mette in luce come un’eccessiva concentrazione di persone senza grandi mezzi, a volte anche concentrata dal punto di vista etnico, non costituisca certo un elemento favorevole all’integrazione”.
A suo avviso, perché risultano più a rischio le città del Nord rispetto a quelle del Sud?
“Perché nella globalizzazione la mobilità delle persone è determinata soprattutto dai centri urbani che hanno la maggiore attività economica, con la relativa ricchezza che funge da attrattore di persone in difficoltà, magari in quantità superiore a quella che questi luoghi sono in realtà capaci di assorbire”.
Quali gli elementi per un percorso di reale integrazione degli immigrati?
“Innanzitutto il lavoro, che è la forma naturale d’integrazione dell’immigrato. In secondo luogo, ci sono le politiche che possiamo mettere in atto, che dovrebbero essere orientate soprattutto alla conoscenza e al rispetto delle regole comuni (spesso ‘misteriose’ anche per noi italiani). Ma poi è necessario anche l’esempio, perché l’integrazione passa per un riconoscimento dell’altro; in effetti, la persona immigrata tende ad avere un comportamento un po’ ‘mimetico’, che impara dagli altri cosa si deve o non si deve fare. Quindi, l’esempio degli italiani, che spesso è carente, riveste fondamentale importanza”.
Secondo le stime della vostra Fondazione, il rapporto costi/benefici degli immigrati in Italia produce un saldo positivo di ben 3,9 miliardi di euro all’anno. Dunque, vale il binomio “immigrato=problema” o piuttosto “immigrato=opportunità”?
“La nostra Fondazione ha usato il concetto di ‘opportunità’ in contrapposizione a una visione totalmente negativa dell’immigrazione, per mostrare l’altra faccia della medaglia. In realtà l’immigrato non è né un costo né un’opportunità, ma è una persona. E soprattutto non dev’essere un ‘affare’, come ha ricordato anche Papa Francesco recentemente. È bene sapere quindi che i nostri problemi di finanza pubblica non derivano, né hanno un contributo negativo, da questo fenomeno, anzi l’immigrato, pur con i suoi bassi salari, dà un contributo minimo ma positivo al mantenimento di un equilibrio finanziario”.
A suo parere, riuscirà l’Italia nei prossimi anni a “riconciliarsi” definitivamente col fenomeno dell’immigrazione?
“Si tratta prima di tutto di un problema culturale, un problema di accettazione della mobilità delle persone nello spazio, tipica della globalizzazione. Per noi italiani questo è un po’ difficile da accettare, vedendo i nostri figli che se ne vanno e queste persone che immigrano in Italia da zone spesso disastrate (rifugiati o poveri); forse è inevitabile provare un certo senso di sgomento e di preoccupazione. Inoltre c’è il problema di fare i conti con la diversità culturale dell’immigrato, con la difficoltà di capire cosa accettare e cosa non accettare, dato per scontato che l’integrazione esige anche che l’immigrato debba accettare di inserirsi in un sistema di regole e di valori proprio del nostro Paese. Per riuscire a riconciliarsi col fenomeno, però, il problema fondamentale da affrontare è quello della povertà crescente da un lato e della debolezza delle nostre istituzioni dall’altro. In nessun caso infatti la povertà aiuta l’integrazione, indipendentemente da chi è povero, e la debolezza delle istituzioni è un problema ancora maggiore, perché non permette di affrontare le questioni che emergono. Questo problema, poi, si salda all’attuale crollo della classe media e, quindi, alla paura degli italiani per la crescente perdita di benessere. Sicuramente se ritornasse un po’ di crescita economica, sarebbe molto più facile affrontare queste tematiche”.
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