RIPATRANSONE – Abbiamo intervistato Don Luis Sandoval della parrocchia Madonna di Fatima che il 9 dicembre ha festeggiato il suo anniversario di sacerdozio.
FOTOGALLERY 25 anni sacerdozio Don Luis, una festa col botto!
Don Luis Cosa sognavi di fare da bambino?
Da bambino sognavo di fare, in spagnolo è definito veterinario, ma più che veterinario, precisamente colui che si dedica allo studio della zootecnica; mi piaceva moltissimo tentare di curare gli animali, era un qualcosa che mi affascinava.
Come è nata la tua vocazione?
In verità, tra i membri della mia famiglia ero uno dei più lontani dalla chiesa; i miei genitori avevano frequentato il corso di cristianità e andavano in parrocchia tutte le domeniche, mio fratello maggiore faceva parte del coro, mentre il più piccolo era ministrante; io non frequentavo per niente gli ambienti religiosi. Durante l’ultimo anno della scuola media, vennero a darci delle testimonianze di vita diverse persone appartenenti ai vari ambiti lavorativi, per aiutarci nella scelta del nostro percorso futuro. Arrivò un frate francescano a parlarci della sua storia e della sua vocazione: fu la prima volta che un’esperienza cristiana mi colpì. Da quel momento, invitato dai miei compagni, ho iniziato a frequentare il Rinnovamento nello Spirito, in una parrocchia vicinissima alla nostra scuola, più che per il Signore, per le ragazze che partecipavano al gruppo, però, in quell’ambiente, è iniziata la mia scoperta del Signore. Con questo gruppo del Rinnovamento, siamo andati ad aiutare alcune famiglie a costruire le loro abitazioni, nelle periferie della nostra città. Mi colpì moltissimo il fatto che, le persone ci chiedevano di costruirgli una cappellina. Io non riuscivo a comprendere come mai, avendo bisogno di una casa, di un tetto, davano la precedenza alla cappellina piuttosto che alla loro abitazione. Questa per me è stata una cosa sconvolgente, che mi ha fatto ripensare la mia vita, a ciò che volevo e che desideravo. Da quel momento iniziai a pensare a ciò che Dio volesse da me. Il 21 giugno di tantissimi anni fa, durante un periodo di grande rivolta politica nella mia nazione, io frequentavo l’ultimo anno della scuola secondaria, lasciata la manifestazione politica, sono entrato in una chiesa a pregare, e da lì mi convinsi subito a chiedere nell’episcopio di parlare con il vescovo e con il responsabile delle vocazioni della mia diocesi. Quel giorno iniziò il mio percorso vocazionale, aiutato da questi sacerdoti, pian piano ho fatto il percorso di discernimento, e , qualche mese dopo, il vescovo mi disse che ero stato ammesso in seminario. Avevo 17 anni appena compiuti, ero giovanissimo.
I tuoi genitori come hanno accolto questa scelta?
All’inizio lo tenni nascosto ai miei genitori. Non confidai loro che volevo diventare sacerdote, perché, nonostante l’esperienza di fede che facevano i miei genitori, percepivo la loro difficoltà nel pensare che un figlio potesse andare lontano di casa. Infatti, quando finalmente informai i miei genitori della mia scelta, mia madre si oppose, lei non voleva che io entrassi in seminario, mio padre un po’ dubitava. Alla fine l’arcivescovo chiese di parlare con loro, fino ad oggi non ho mai saputo che cosa si siano detti, ma , usciti da quell’incontro, i miei genitori mi abbracciarono dicendomi che contro il Signore non si può lottare, e che quindi mi davano la loro benedizione perché io partissi. Dopo qualche mese sono entrato in seminario. Il timore di mia madre era che andassi lontano, io la rassicuravo dicendole “resterò sempre qui vicino, nella nostra diocesi, non andrò fuori” , infatti il mio primo intento era quello di vivere la vocazione sacerdotale in diocesi, pochi anni dopo cambiò tutto.
Come sei arrivato in Italia?
Per arrivare in Italia il percorso è stato lungo. Dopo la Conferenza Episcopale di Puebla in Messico nel 1979, il mio arcivescovo, tornato da questa conferenza, chiese a noi seminaristi di pensare di andare a prestare servizio nelle nazioni che non avevano abbastanza vocazioni sacerdotali. Invitato da lui, insieme ad altri miei compagni, sono partito per l’ Honduras, altri nostri compagni andarono in paesi diversi. Non eravamo moltissimi, anche se il nostro gruppo era uno dei più consistenti, ma siamo partiti con questo slogan promosso dalla Conferenza di Puebla “Dare a partire dalla nostra povertà”, con la certezza che il nostro andare lontano potesse far nascere molte più vocazioni nella nostra diocesi. Arrivato in Honduras, sono stato inviato a studiare teologia in Guatemala e in Messico. Dopo essere diventato sacerdote, dall’Honduras sono stato inviato a studiare ancora a Roma, per una licenza in liturgia e in quel tempo prestai servizio nella parrocchia di S. Pio V a Grottammare; così ebbi il primo contatto con la nostra diocesi. Tornato in Honduras, dopo alcune esperienze difficili, il mio vescovo mi diede la possibilità di tornare in Italia, nella nostra diocesi per 5 anni, a servizio, soprattutto, delle comunità latinoamericane; dopodiché invece, sono stato inserito come viceparroco e poi finiti i 5 anni, sono rimasto in diocesi, incardinato dal 2003.
Dato che hai vissuto in tante realtà, che differenze noti, anche a livello di accoglienza e di fede?
Ogni parte del mondo ha una sua peculiarità, per cui, non tutti i posti sono uguali, anche se noi esseri umani abbiamo fondamentalmente gli stessi sentimenti e le stesse caratteristiche, però, ogni chiesa particolare ha il suo modo di esprimere la fede, questo grazie anche alla propria storia. Ad esempio, mi vengono in mente le comunità cristiane nel Guatemala, che hanno un grandissimo influsso delle loro culture indigene, per cui hanno manifestazioni religiose molto diverse, una religiosità popolare più accentuata, rispetto alla mia nazione. L’esperienza in Messico mi ha fatto notare una attenzione per la dottrina sociale della Chiesa e un impegno nel mondo socio-politico più forte, i fatti che oggi apprendiamo dai mass media vengono fuori grazie al fatto che le chiese continuano a denunciare, con ancora più forza, le situazioni poco chiare che si vivono a livello sociale o politico. In Honduras io mi trovavo proprio tra il Nicaragua e il Salvador, chiese particolari che hanno vissuto molto profondamente una esperienza di impegno di fede con la comunità, molto più “incarnato”, nel senso che, dovevano dare una maggiore speranza al popolo che in quel momento era sotto il dominio di dittature militari, oppure stava uscendo da situazioni politiche di grave crisi. Quindi, ogni nazione esprime la propria fede secondo la propria storia. C’è moltissima partecipazione laicale nella chiesa dell’Honduras, c’è un impegno laicale che non ho conosciuto, né nella mia terra, né in altre chiese dell’America latina o in Italia. Qui c’è una espressione della fede che pian piano cambia con il tempo e con gli avvenimenti socio-culturali, poi l’influsso della dottrina della Chiesa, sia la dottrina sociale, sia tutti i documenti che emana il Magistero, fanno sì che le chiese possano avere un modo di esprimersi del tutto diverso e nuovo. Nessuna chiesa si ferma ad una unica espressione di fede, tutti sono in continua evoluzione, ed è proprio questo il bello della nostra Chiesa.
Raccontaci qualche tua particolare esperienza.
Una di quelle che più mi ha colpito nella mia vita di sacerdote, che segnò un momento particolare della mia vita fu all’inizio del ministero sacerdotale, mi trovavo nella prima parrocchia in Honduras, è stata un’occasione in cui ho dovuto difendere la vita dei bambini. Mentre andavo con i ragazzi alla celebrazione della Messa, siamo stati intercettati da alcune persone che ci fermarono, in quel momento storico non si conoscevano i mandanti. Per la prima volta nella mia vita, ho sentito il freddo di un fucile puntato in testa, e non è stata per niente una bella esperienza, vedendo anche il rischio corso dai chierichetti che portavo con me, fu una situazione abbastanza difficile. In quell’occasione ho avuto la conferma della presenza del Signore, il quale mi diede le parole giuste per poter toccare il cuore di questi uomini che ci avevano fermato e che dovevano farci fuori, grazie a Dio, siamo usciti illesi e senza problemi da quella situazione. Di fatto, quell’esperienza, non mi ha provocato paura in seguito e continuavo ad andare in visita delle comunità cristiane che dovevo assistere o servire ma, spesso pensavo due volte chi portare con me, partivo sempre con persone adulte e ci spostavamo più in gruppo che da soli. Questa è la bellezza dell’esperienza nella comunità cristiana in quei luoghi, il poter realizzare le cose insieme, il che, a tutt’oggi, lo sperimento nella mia comunità parrocchiale attuale. Le esperienze che in seguito hanno segnato la mia vita, sono state le testimonianze di vita di alcune persone: di mia madre Clorinda, particolarmente nel momento finale della sua vita terrena. Qui nella nostra diocesi, la testimonianza di Alessandra Amabili, poi in parrocchia, la morte di alcuni giovani e di uno dei nostri ministranti: Luca Carboni dopo di che la nostra comunità si è unita ancora di più. In realtà la nostra comunità diventa sempre più bella per questa vita di fede che illumina le nostre giornate. Queste sono le cose che nel mio animo sacerdotale mi consolano e mi spingono a dare il tutto di me stesso.
Quale sarebbe un tuo desiderio pastorale che vorresti realizzare?
Un desiderio pastorale, penso sia quello che c’è nel cuore di ogni sacerdote, di poter diventare un testimone autentico del Signore. A me fu detto, il giorno che entrai in questa comunità parrocchiale, di costruire una comunità di fede, una comunità di fratelli, e questo tento di fare, creare e costituire una comunità cristiana che possa essere nel mondo un segno vivente dell’amore di Dio, e dell’abbondanza di misericordia del Signore nella nostra vita.
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