Era il 29 giugno quando l’Isis, Stato islamico dell’Iraq e della Grande Siria, proclamava la restaurazione del Califfato islamico, con Abu Bakr al-Baghdadi come califfo. “Un sogno che vive nelle profondità di ogni credente musulmano”, come annunciato dal suo portavoce, Abu Muhammad al-Adnani al-Shami, che diventava realtà. Criticato da numerosi studiosi musulmani come anche da analisti di geopolitica, il Califfato, denominato Is (Stato islamico) si è imposto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e, soprattutto, delle cancellerie internazionali attraverso azioni efferate, quali le decapitazioni di giornalisti occidentali, la persecuzione delle minoranze religiose come cristiani e yazidi, rapimenti, abusi e stupri. Dopo aver eliminato alcuni gruppi jihadisti rivali e inflitto sconfitte militari alle truppe regolari siriane e irachene, oggi l’Is controlla un vasto territorio compreso tra Siria e Iraq e città come Mosul e Raqqa, suo quartier generale, Falluja, le periferie orientali di Aleppo, la Piana di Ninive; un’area strategica anche per le sue ricche risorse petrolifere e idriche.
Su questo territorio, suddiviso in 18 province in ognuna delle quali operano il Consiglio della Shura e quello della Sharia, il califfo al-Baghdadi ha instaurato una teocrazia ispirata al Corano da applicarsi con la spada. Non senza timori da parte delle popolazioni assoggettate – ne sanno qualcosa le centinaia di migliaia di cristiani e yazidi fuggiti in Kurdistan – anche se, in tempi più recenti, sudditi di fede sunnita hanno cominciato a vedere nel vessillo nero dell’Is una forma di riscatto contro il regime siriano di Damasco di Bashar al Assad e di quello iracheno, a guida sciita. Uno Stato ispirato alla Sharia (legge coranica) che garantisce protezione ai suoi fedeli e anche un certo welfare, con distribuzione di cibo e acqua, erogazione di energia elettrica e apertura di scuole islamiche e di ospedali. A far funzionare questa struttura amministrativa, a finanziarla e a mantenere il suo esercito – stime della Cia parlano di circa 31.500 miliziani – è una ristretta cerchia di uomini fidati di al-Baghdadi: l’esperto militare iracheno e numero due del Califfato, Abu Muslim Al-Turkmani, anche se potrebbe essere morto durante il raid americano dell’8 novembre su Qaim (Iraq), Abu Omar Al-Shishani, noto come “il ceceno”, alto comandante dello Stato islamico in Siria e il portavoce e “ideologo” dell’Is Abu Mohammad Al-Adnani.
Il loro successo sul campo viene definito “allarmante” da un recente rapporto del Soufan Group, specializzato in servizi di intelligence, che conferma ciò che, in fondo, già si sapeva, e cioè che il petrolio è la principale fonte di reddito per l’Is, e che sarebbero tra i 2 e i 4 milioni di dollari al giorno gli introiti derivanti dalle estrazioni. Cifre importanti che vengono integrate da altre fonti di guadagno rappresentate, in modo particolare dal contrabbando di reperti archeologici e dai riscatti dei rapimenti. I raid aerei della coalizione a guida Usa, anche sulle infrastrutture petrolifere, se sembrano aver rallentato l’avanzata dell’Is non ne hanno del tutto azzerato la capacità di procurarsi denaro con cui alimentare la guerra contro Siria e Iraq e contro quelle tribù sunnite che non hanno dato sostegno alla causa del Califfato. Da giorni, ormai, l’Is combatte per la conquista di Ramadi, circa cento chilometri a ovest di Baghdad, dove ha ingaggiato combattimenti con le forze governative irachene e tribù alleate. Una battaglia molto più importante di quella di Kobane, città curda siriana, poiché se le milizie del califfo riuscissero a prevalere avrebbero il controllo delle principali linee di rifornimento che arrivano sino al confine siriano e alle porte di Baghdad.
Tutto questo basta, però, a fare dello Stato Islamico una vera potenza regionale e, soprattutto, una realtà politica? È evidente che, come confermano molti esperti e analisti politici e militari, il futuro dell’Isis non dipenderà dagli attacchi aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti. “Per sopravvivere – affermano dal Soufan Group – l’Isis dovrà essere in grado di trasformarsi da una forza prevalentemente militare a una solida struttura amministrativa, per riuscire a governare e controllare il territorio. Se non sarà in grado di mantenere le infrastrutture pubbliche esistenti e di soddisfare le richieste di cibo, acqua, assistenza sanitaria, energia e servizi igienici e di sostenere un’economia solida, l’Is non potrà sopravvivere”. Una mano alla sopravvivenza del Califfato potrebbe arrivare, tuttavia, dalla frammentazione della regione, dalla mancanza di governi capaci a garantire alle loro popolazioni benessere e sicurezza. L’instabilità attuale, infatti, non fa che aumentare l’appeal del Califfo presso le nuove generazioni, quelle che risentono della mancanza di prospettive e di futuro. Quanto vivrà il Califfato? Probabilmente il tempo necessario ad attori e potenze regionali, ben più consistenti dell’Is, per ridisegnare i confini del nuovo Medio Oriente. Come dire che più che le scelte di al-Baghdadi saranno quelle dei suoi amici e nemici – spesso gli stessi soggetti – a segnare la fine del Califfato.
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