Di Fabio Zavattaro

VATICANO – “Cinquant’anni fa, in questo giorno, anche io sono stato qui in piazza, con lo sguardo verso questa finestra, dove si è affacciato il buon Papa, il beato papa Giovanni e ha parlato a noi con parole indimenticabili, parole piene di poesia, di bontà, parole del cuore”.
La sera dell’11 ottobre Benedetto XVI, come Giovanni XXIII, ammira dalla finestra la fiaccolata che “incendia” – così disse monsignor Loris Capovilla, già segretario particolare di papa Roncalli – la piazza. La sera del 1962 si festeggiava l’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II; l’altra sera, l’apertura dell’Anno della fede. Cinquanta anni separano i due eventi; ma forse il verbo da usare è un altro: unire. Si perché sono tra loro in continuità uniti, e papa Benedetto lo ha sempre sottolineato. “Eravamo felici – direi – e pieni di entusiasmo”. Il Concilio apriva le porte ad una nuova stagione, e la Chiesa, per Giovanni XXIII, era chiamata ad innalzare “la fiaccola della verità religiosa” mostrandosi così “madre amorevole, di tutti, benigna, paziente, piena di misericordia e di bontà verso i figli separati”. Una Chiesa, ancora, che “preferisce far uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità”.
Il discorso di apertura del Concilio è inatteso; l’anziano Papa, già minato da un gravissimo male, guarda a una Chiesa compagna di viaggio dell’uomo contemporaneo e le sue parole sono ispirate a una solida speranza evangelica. Una Chiesa che “non promette una felicità solo terrena”, ma che parla di carità cristiana “di cui nulla maggiormente giova a strappare i semi di discordia, e nulla è più efficace per fomentare la concordia, una pace giusta e l’unione fraterna di tutti”.
Il Concilio, dunque, come un “balzo in avanti”, capace di aiutare l’uomo a riscoprire Cristo “centro della storia e della vita”.

Gli uomini, diceva ancora Giovanni XXIII “o sono con lui o con la sua Chiesa, e allora godono della bontà, dell’ordine e della pace; oppure sono senza di lui, o contro di lui, e deliberatamente contro la sua Chiesa, causando confusione, asprezza di umani rapporti, e persistenti pericoli di guerre fratricide”. È un Papa che esprime il suo dissenso dai profeti di sventura, ma non nasconde che ci sono “dottrine fallaci, opinioni, concetti pericolosi da cui premunirsi e da dissipare” in contrasto “con la retta norma dell’onesta”. Ma ancora una volta ad essere condannato è il peccato non il peccatore.
Benedetto XVI nei suoi discorsi per l’apertura dell’Anno della fede, parla del Concilio come di una “nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo”. E se la Chiesa propone un Anno della fede non è certo solo per fare memoria del Concilio. In questi anni, ricorda, “è avanzata una desertificazione spirituale”; si è diffuso il vuoto. Ma è proprio nel deserto che “si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere”; e nel deserto “c’è bisogno soprattutto di persone di fede”.

Ecco l’immagine che papa Benedetto offre dell’Anno della fede: “un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale”. E la cosa importante oggi è che si veda con chiarezza, com’era desiderio dei padri conciliari, “che Dio è presente, ci riguarda, ci risponde”.
C’è poi una parola sulla quale Benedetto XVI invita a riflettere, nel discorso rivolto ad alcuni padri conciliari, quindici presenti a Roma su settanta ancora in vita; e la parola è: aggiornamento. L’ha usata Giovanni XXIII, intuizione esatta perché il cristianesimo “non deve essere considerato come qualcosa del passato, né deve essere vissuto con lo sguardo perennemente rivolto all’indietro, perché Gesù Cristo è ieri, oggi e per l’eternità”. Dio è entrato nel tempo ed è presente ad ogni tempo, “perché ogni tempo sgorga dalla sua potenza creatrice, dal suo eterno oggi”.
La usa Benedetto XVI per dire che il cristianesimo, allora, non va visto come un albero sviluppatosi dal granellino di senape, che è cresciuto, ha dato i suoi semi ed è invecchiato; “è un albero che è, per così dire, in perenne aurora, è sempre giovane”. E questa attualità, questo “aggiornamento non significa rottura con la tradizione, ma esprime la continua vitalità; non significa ridurre la fede abbassandola alla moda dei tempi, al metro di ciò che ci piace, a ciò che piace all’opinione pubblica, ma è il contrario”.
Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura, 11 ottobre 1962, affermava che “il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso [la dottrina], come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino che la Chiesa compie da venti secoli”.
E quando papa Benedetto, la sera dell’11 ottobre alla fiaccolata promossa dall’Azione cattolica, parla di gioia “forse più sobria, una gioia umile”, perché in questi cinquanta anni abbiamo imparato che “il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali”, non è per pessimismo. Certo, ricorda che c’è sempre zizzania nel campo del Signore: “abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: il Signore dorme e ci ha dimenticato”.
Ma non è così: abbiamo avuto “una nuova esperienza della presenza del Signore, della sua bontà, della sua forza”. Il fuoco dello Spirito Santo, di Cristo “non è un fuoco divoratore, distruttivo; è un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma, dà luce e calore. Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica”.
Parole amare, certo. Ma Benedetto XVI non è un Papa pessimista, perché “Cristo vive, è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà non si spegne; è forte anche oggi”. E l’Anno della fede è occasione per riscoprire la verità e la bellezza della fede, perché in essa “risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi”.

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