MONDO – Domenica 21 ottobre si celebrerà la Giornata missionaria mondiale. Il tema di quest’anno è “Ho creduto perciò ho parlato”. Nel messaggio del Papa si sottolinea la “priorità dell’evangelizzare” e l’annuncio che “si fa carità”. Per riflettere sulla missione oggi Luigi Crimella, per il Sir, ha intervistato padre Piero Gheddo, missionario del Pime, giornalista e scrittore.
In un’epoca segnata dal fenomeno della “globalizzazione” cambia qualcosa per l’azione di annuncio da parte della Chiesa, specie per la missione “ad gentes”?
“Anzitutto bisogna distinguere chiaramente tra la missione ‘alle genti’ in quanto tale rispetto alla ‘nuova evangelizzazione’. È vero che si tratta di due movimenti che s’incrociano e s’influenzano reciprocamente, ma la ‘missio ad gentes’ è dove Cristo non è mai stato annunciato o la Chiesa è così piccola che non ha forza per farsi sentire. La nuova evangelizzazione è invece una missione universale, come spiega la ‘Redemptoris Missio’ di Giovanni Paolo II. L’attività missionaria rimane tale e quale, pur cambiando i tempi, e il missionario oggi va ad obbedire al vescovo locale”.
Cosa può apportare oggi l’annuncio cristiano a popoli che non lo hanno mai ricevuto?
“C’è una differenza notevolissima tra Paesi cristianizzati, Paesi che lo sono stati e oggi hanno perso di vista Dio, e infine tra Paesi che non sono mai stati cristianizzati. Faccio l’esempio del Giappone: è un Paese organizzatissimo, dove tutto funziona. Del messaggio cristiano ha preso alcuni valori umanizzati, quali la carità, l’altruismo; ma non ha preso quei valori che sono caratteristici del Vangelo, come il perdono delle offese. P. Fedele Giannini, un confratello che è stato per più di 40 anni in Giappone, racconta che in quel Paese la vendetta è sacra, se uno sbaglia deve pagare, mentre i cristiani hanno accolto e propongono la novità assoluta del perdono delle offese. In un’epoca di ‘nuova evangelizzazione’, direi che la ‘missio ad gentes’ non solo non si estingue, anzi è appena agli inizi, visto che ci sono al mondo circa 4 miliardi e mezzo di uomini che non sanno chi sia Cristo”.
Come deve attrezzarsi, oggi, un missionario per poter affrontare il mondo globalizzato?
“Per i missionari che partono in questi anni verso le terre non cristiane la preparazione è molto diversa rispetto a quella di noi giovani missionari degli anni Cinquanta. Allora il missionario era insieme un fondatore, un comandante, un leader oltre che un ‘pastore’. Oggi va per mettersi al servizio delle Chiese locali e queste gli danno il compito di avvicinare i ‘lontani’ con molte iniziative, col dialogo, la promozione umana, la carità. Mentre nei Paesi già cristianizzati, come l’Italia, i preti e i laici che collaborano hanno un’altra formazione. Le sfide per la Chiesa da noi sono due: una è l’arrivo di fedeli delle grandi religioni non cristiane e l’altra sono i battezzati cattolici che si sono allontanati da Cristo. È chiaro che per questo contesto la formazione è molto diversa ed è diverso anche il metodo pastorale. La sfida più grande della Chiesa è certamente quella di mandare ancora missionari nei Paesi non cristiani. Ma è soprattutto di poter annunciare Cristo con linguaggi, contenuti, motivazioni che avvicinino i non credenti che avevano ricevuto il battesimo nella prima età”.
Concretamente, cosa studiano i missionari oggi?
“Oltre alla formazione spirituale, pastorale e sociologica dei Paesi di destinazione, sono chiamati a studiare le lingue per potersi incarnare nella cultura locale. Nelle missioni, dicono in molti, ci sono molte più consolazioni che non per chi opera nei Paesi di antica cristianizzazione. Il ‘convertito’ in genere è molto più fedele e riconoscente verso il missionario che lo ha portato a Cristo”.
Quali sono oggi le terre di missione più “difficili”?
“Sono quelle dove i cristiani vengono perseguitati, ma anche un certo mondo impenetrabile dell’Islam. Però non tutte le realtà sono uguali. Ad esempio, ho visto in Libia pochi anni fa, nel 2007, le enormi difficoltà dei francescani a vivere e fare apostolato. Dall’altro lato, ho incontrato una comunità di suore a Tripoli che dicevano di non essere mai state così contente, perché bene accolte, protette, e circondate dell’affetto di tanti musulmani che vedevano in loro le ‘donne consacrate a Dio’”.
Cosa direbbe a un giovane oggi a proposito della missione?
“In questi ultimi 15-20 anni noto che è molto difficile che si trovino vocazioni missionarie, forse perché ci sono meno figli ma soprattutto perché mi pare che tra i cattolici l’appello a donare la vita a Cristo è poco presente. Ai miei tempi, invece, la chiamata era ampia e continua e anche le risposte erano molto generose. Quando venni ordinato prete, nel 1953, dal card. Schuster, in duomo a Milano eravamo 120 nuovi sacerdoti, numeri oggi quasi impensabili. Voglio quindi dire ai giovani, ma anche ai genitori, che consacrare la vita a Cristo non è un ‘perdere’ ma un ‘guadagnare’. Certo comporta dei sacrifici, ma è una vita che soddisfa: se ti dai a Gesù egli ti ricompensa, come ha promesso nel Vangelo, al cento per uno, oltre alla vita eterna”.
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