Alla luce anche di quest’ultima indagine partita da Brescia, secondo lei c’è ragione di pensare a un “jihadismo italiano”?
“Non ci possiamo meravigliare: il jihadismo – come si è visto – è un fenomeno diffuso anche in Europa. Riguarda frange certamente minoritarie, ma quelle tendenze ideologiche che si riscontrano all’interno del variegato mondo islamico ci sono anche in Italia”.
Cosa spinge un giovane nato o cresciuto in Occidente a unirsi ai terroristi?
“Le motivazioni sono di vario tipo. Nel caso delle banlieue francesi la radicalizzazione avviene essenzialmente per un difetto d’integrazione. La reazione alla mancata integrazione diventa rifiuto sostanziale di tutto ciò che è occidentale, portando a scelte radicali come quella di unirsi al fronte jihadista. Però non vi sono sempre all’origine condizioni di marginalità o storie di delinquenza locale. Non è un caso che Jihadi John, il cosiddetto ‘boia dell’Is’, provenga invece da una condizione sociale non certamente svantaggiata. Ci sono dei fattori scatenanti, ma dobbiamo rilevare come siano principalmente la capacità attrattiva e la dimensione ideologica del jihadismo a generare questa scelta”.
Ma l’efferatezza, manifestata pubblicamente, delle azioni compiute non dovrebbe far desistere dall’aderire a una simile ideologia?
“Dentro il fondamentalismo di matrice radicale il nemico è una costruzione ideologica. Nonostante l’efferatezza e l’abominio delle pratiche di sgozzamento, prevale questa sorta di adesione a un messaggio di odio verso l’Occidente e la civilizzazione giudaico-cristiana. È un fenomeno di grande impatto, dentro al quale, come in tutte le narrazioni ideologiche, c’è un’adesione totale e incondizionata alla fede”.
In un’epoca definita post ideologica torniamo a parlare di ideologia…
“La globalizzazione induce anche fenomeni reattivi, identitari, e i diversi fondamentalismi possono essere interpretati con questa chiave di lettura, come rifiuto di un’omologazione culturale a livello mondiale, dove, paradossalmente, si arriva a usare le religioni come repertori simbolici da saccheggiare per trarne risorse simboliche funzionali all’ideologia”.
Prima delle misure preventive e repressive, vi può essere una sorta di controllo sociale per contrastare la diffusione del fenomeno in Occidente e in Italia?
“Questo è fondamentale e deve venire essenzialmente dalle comunità musulmane in Europa. Tutti i fenomeni di devianza terroristica di una certa consistenza si possono battere solo quando trovano una reazione interna, soprattutto da parte di ambienti che possiedono i giusti codici simbolici. Devono perciò essere le stesse comunità musulmane, anche in Italia, a sviluppare una battaglia culturale che delegittimi qualsiasi interpretazione deviante della religione”.
A suo avviso, si è innescata questa reazione tra le comunità musulmane europee?
“Dopo i fatti di Parigi l’abbiamo vista ed è pure stata importante la reazione avvenuta in Tunisia. Questi attentati mettono a rischio le stesse comunità musulmane: pensiamo a quanto gli attentati terroristici abbiano alimentato una reazione xenofoba che si è tradotta anche in un marcato tratto islamofobo”.
Il Parlamento italiano proprio in questi giorni sta discutendo il ddl antiterrorismo. Una prima versione prevedeva anche la possibilità – contestata e poi stralciata dal testo – di intercettazioni telematiche, entrando da remoto nei personal computer. Quale ruolo hanno le investigazioni e l’intelligence nel prevenire il jihadismo?
“L’intelligence ha un compito fondamentale, possiede uno ‘sguardo’ che altri operatori della sicurezza non hanno. Premesso questo, in tutte le democrazie bisogna conciliare sicurezza e libertà, valutando gli strumenti adatti. Trovare quest’equilibrio non è facile, come sappiamo dall’11 settembre in poi, ma è decisivo”.
Davanti ad attentati come quello in Tunisia, o a gennaio in Francia, è il caso di parlare di falle nella prevenzione?
“Le falle ci sono state da parte di apparati che avevano sufficienti informazioni: in entrambi i casi gli attentatori erano persone note agli organismi di sicurezza, che non sono state sufficientemente monitorate. Ma questo dipende anche dall’entità del fenomeno: i potenziali terroristi sono molti. Abbiamo un sufficiente bagaglio di conoscenze che permette un buon livello di monitoraggio, ma il fenomeno è sfuggente: ormai l’arruolamento avviene non tanto nelle moschee – che sono ben controllate – quanto in Rete”.
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