Eroso da divisioni interne, per le quali non ha ancora un presidente, annodato a doppio filo con la confinante Siria, anch’essa segnata da un conflitto entrato da pochi giorni nel suo quinto anno, il Libano è sempre più nell’occhio del ciclone. Epicentro delle tensioni sono soprattutto i suoi confini, quelli sud con Israele, e quelli siriani, dove scontri armati, tra esercito libanese con milizie di Hezbollah e frange dello Stato Islamico e del Fronte al-Nusra, sono pressoché continui. A rendere il Paese dei Cedri ancora più instabile, poi, sono il milione e duecentomila circa rifugiati (fonte: Nazioni Unite, 12 marzo 2015) arrivati dalla Siria, tra i quali, secondo i servizi di sicurezza, si anniderebbero cellule dormienti terroristiche. L’ombra del Califfato sembra allungarsi anche in Libano. È di questi giorni, poi, la decisione del Paese di chiudere le frontiere ai profughi perché non più in grado di accogliere altre ondate. Mancano gli aiuti, mancano le scuole per far studiare i bambini, manca lavoro. Lo Stato e le organizzazioni internazionali non bastano più. “Il Libano è stato lasciato solo a gestire questa grande emergenza umanitaria”, stigmatizza Matteo Bressan, giornalista, ricercatore e autore, con la collega di RaiNews24, Laura Tangherlini, del libro “Libano nel baratro della crisi siriana” (edito da Poiesis).
“Il dramma della crisi siriana – spiega Bressan – ha investito il Libano trovando terreno fertile complici anche divergenze all’interno della sua società e della sua classe politica, relative all’amicizia con il presidente siriano Assad, come dimostra la scelta di Hezbollah, partito-milizia forse più famoso del Medio Oriente, di intervenire militarmente in Siria, a fianco dello stesso Assad”. Secondo i partiti contrari, invece, “la scesa in campo di Hezbollah non ha fatto altro che aumentare il rischio di ritorsioni contro il Libano da parte dei gruppi ribelli e di opposizione ad Assad”.
Tra questi vanno adesso annoverati anche gruppi jihadisti…
“Fino al 2012 i ribelli erano sostanzialmente esponenti del Free Syrian army, militari regolari che avevano disertato. Il conflitto è poi peggiorato con l’avvento di miliziani jihadisti e dello Stato islamico (Is). Motivo per cui Hezbollah è entrato in Siria anche con 5mila uomini. Sono due storie intrecciate sotto il profilo politico e strategico”.
Dal 25 maggio 2014, il Libano è formalmente senza presidente, carica che a livello istituzionale spetta a un cristiano maronita. Tuttavia i leader politici maroniti – a cominciare da Michel Aoun e Samir Geagea – non trovano un nome su cui convergere. Quanto pesa questo stallo sulle vicende libanesi?
“Questa è un’altra anomalia che lascia sbalorditi. Il Libano veniva da circa 11 mesi di assenza di governo che si è insediato solo nel febbraio 2014, grazie – si è detto – ad un compromesso tra Arabia Saudita e Iran. Per la carica di presidente non si riesce a trovare la sintesi politica sui due nomi emersi fino ad oggi, il generale Michel Aoun e Samir Geagea, forse troppo politicizzati per ricoprire questo incarico. Potrebbe avere ragione il patriarca maronita, il cardinale Béchara Boutros Raï, per il quale la nomina del presidente potrebbe essere un effetto collaterale dell’accordo sul nucleare iraniano”.
Da dove nasce questa incapacità di trovare una convergenza?
“I cristiani in Libano militano in quattro partiti suddivisi in due blocchi: uno vicino all’Arabia Saudita e l’altro all’Iran. Questa divisione impedisce l’elezione della carica più importante assegnata ai cristiani. Un caso unico in tutto il Medio Oriente. I cristiani libanesi non sono più la maggioranza nel Paese e questa frammentazione è un fattore di grande debolezza, soprattutto adesso che c’è lo spauracchio dello Stato islamico”.
Il Libano vive la grande emergenza umanitaria dei profughi e rifugiati siriani. In che modo questa potrebbe minare il già precario equilibrio interno?
“I problemi sono due: il primo è demografico. Il Libano, Paese di 4 milioni di abitanti ha accolto quasi 2 milioni di rifugiati e questo deve fare riflettere. L’accoglienza non è stata strutturata come altri Paesi: Turchia, Giordania, Kurdistan iracheno. Al tempo stesso, questa presenza rappresenta un’alterazione degli equilibri confessionali. Ed è forse per questo motivo che non sono stati allestiti campi di accoglienza per profughi che sono in prevalenza sunniti. Un fatto che ha un precedente nella guerra civile libanese quando i profughi palestinesi si stabilizzarono nel Paese. La ripetizione di questa esperienza crea paura. Il Libano è stato lasciato solo a gestire questa emergenza umanitaria”.
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